Un recente studio apparso sul “New England” ha evidenziato una diretta correlazione tra le forme più gravi di obesità pediatrica e i corrispettivi fattori di rischio per lo sviluppo di malattie cardiache e diabete, soprattutto nei maschi. La ricerca è stata condotta da studiosi della University of North Carolina and Wake Forest Baptist Medical Center che hanno suddiviso la popolazione di bambini in studio in 3 classi di rischio sulla base del grado di obesità, dove i livelli più gravi erano il II (Bmi superiore del 120% del 95° percentile) e il III (Bmi maggiore del 140% del 95° percentile). «Lo studio ha evidenziato che quanto maggiore era la gravità dell’obesità, tanto maggiore era il rischio di avere bassi livelli di colesterolemia-HDL, elevati valori pressori sistolici e diastolici, alti livelli di trigliceridemia e di HbA1c» spiega l’autore principale, Asheley Cockrell Skinner. «Ciò spinge a strategie di intervento e prevenzione nei ragazzi più a rischio, senza aspettare che i fattori di rischio abbiano portato alle malattie». Apparentemente le conclusioni non sembrano inattese. In effetti «già alcuni studi hanno dimostrato il collegamento tra obesità, da un lato, e rischio cardiometabolico e diabete, dall’altro» commenta Mohamad Maghnie, presidente della Società italiana di endocrinologia pediatrica (Siedp). «Questo studio però ha innanzitutto il pregio di essere numeroso, dato che sono stati coinvolti circa 8.500 pazienti, stratificati per varie età, da 3 a 19 anni. Il merito più importante, peraltro, è stato quello di stratificare il rischio di obesità, offrendo una definizione di I, II e III grado». Stratificando i rischi in base al grado di obesità è ovvio che le conclusioni del lavoro vanno verso il fatto che è l’obesità di III grado quella maggiormente associata a rischi cardiometabolici, aggiunge Maghnie, ma lo studio ci invita a dire che sicuramente anche quando siamo all’obesità di II grado ci troviamo di fronte a una popolazione a rischio dove bisogna cominciare a intervenire, anche presto. «Questi sono i messaggi più forti emersi dallo studio» ribadisce il presidente Siedp «oltre al dato che i maschi sono molto più a rischio delle femmine: la motivazione non è molto chiara ma il dato è evidente». Come si può intervenire di fronte alla crescente epidemia di obesità pediatrica? «A mio avviso i medici non possono essere lasciati da soli» risponde Maghnie. «L’intervento sull’obesità dev’essere di politica sanitaria. È difficile che una singola azione possa fare qualcosa. È molto frustrante affrontare l’obesità e l’unico intervento in grado di ottenere risultati, come dimostrato da vari studi, è quello sul comportamento che nasce dall’educazione e quindi deriva dalla famiglia e dalla scuola dove l’educazione alimentare è l’unica azione su cui investire per poi avere un risparmio. In particolare bisognerebbe favorire il consumo di più frutta e verdura nelle scuole e dare ai ragazzi maggiore possibilità di movimento perché ormai non c’è più spazio nelle città: come si vede, sono tutti interventi di politica sanitaria». Il presidente Siedp conclude rimarcando che il problema non deve essere sottovalutato: «bisogna mantenere l’attenzione alta perché i costi delle malattie croniche alle quali andranno incontro questi soggetti sono talmente elevati che si andrà verso la “tempesta perfetta” nel senso che la sanità non potrà più sostenerli se non si interviene subito: e questo è un monito basato su dati certi».
N Engl J Med, 2015;373(14):1307-17
N Engl J Med, 2015;373(14):1307-17