La Corte di Cassazione ha emesso la sentenza secondo la quale la legge 2 dicembre 2016 n. 2421 relativa alla coltivazione e alla filiera agroindustriale della canapa non consente la vendita o la cessione a qualunque titolo dei prodotti «derivati dalla coltivazione della Cannabis sativa L.», quali foglie, inflorescenze, olio e resina che rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al DPR 309/1990 (Testo unico sulla droga che recepisce la Convenzione unica sugli stupefacenti firmata a New York il 30 marzo 1961).
Tale decisione pone in serio pregiudizio il futuro dei circa 800 negozi aperti in questi ultimi anni in Italia che commercializzano la cosiddetta “cannabis light”. La IV Sezione penale, con ordinanza n. 8654 dell’8 febbraio 2019 aveva rimesso alle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione la questione se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’art. 1, comma 2, legge 2 dicembre 2016 n. 2421 – e, in particolare, la commercializzazione di Cannabis sativa L. – rientrino o meno nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.
Con questa sentenza, la Cassazione ha confermato che solo la coltivazione di varietà di canapa con un contenuto complessivo di THC (tetraidrocannabinolo) compreso tra lo 0,2 e lo 0,6% rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica quindi come lecita unicamente l’attività di coltivazione della pianta.
Pertanto, sulla base di tale verdetto, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina derivati dalla coltivazione della Cannabis sativa L., si configura come reato. La Cassazione ha però aggiunto «salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante», fraseggio di dubbia interpretazione considerando che i valori di tolleranza di THC consentiti (0,2-0,6%) si riferiscono solo al principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio. A seguito di tale sentenza che lascia comunque spazio a dubbi interpretativi, ai fini di un più efficace chiarimento, la Procura della Cassazione ha chiesto alle sezioni penali unite della Suprema Corte di inviare gli atti in questione alla Consulta. I supremi giudici sono chiamati a chiarire in via definitiva se sia punibile o meno chi mette in commercio prodotti derivati da infiorescenze o resine della cannabis con THC inferiore allo 0,6%