Nutraceutici per il trattamento dell’ipercolesterolemia
La presenza di elevati livelli plasmatici di colesterolo si accompagna ad un incremento significativo della morbilità e mortalità cardiovascolare, tanto che l’ipercolesterolemia è annoverata tra i fattori di rischio cardiovascolare maggiori. Numerosi studi prospettici concordano nel documentare una relazione diretta ed indipendente tra colesterolemia e rischio cardiovascolare. La relazione tra colesterolemia e rischio cardiovascolare appare essere lineare, senza evidenza di un livello soglia al di sopra o al disotto del quale si osservi una variazione rilevante della pendenza della retta che descrive la relazione tra colesterolemia e rischio cardiovascolare.
La riduzione del colesterolo LDL, per i soggetti affetti da ipercolesterolemia, sia in prevenzione primaria che secondaria, si associa ad una significativa riduzione del rischio di eventi cardiovascolari. Numerose evidenze dimostrano che l’entità della riduzione del rischio cardiovascolare associata alla riduzione dei livelli circolanti di colesterolo LDL è funzione diretta dei livelli di colesterolo LDL pre-trattamento, del livello di rischio globale del paziente e della precocità dell’intervento ipocolesterolemizzante. In aggiunta, i trials clinici di intervento con statine e, più recentemente con ezetimibe, hanno avvalorato l’ipotesi secondo cui la riduzione del colesterolo LDL produce innegabili benefici in termini di prevenzione di eventi cardiovascolari e che il beneficio più rilevante si ottiene nei pazienti che raggiungono valori più bassi di colesterolo LDL.
Da quanto detto si evince che l’intensità dell’azione terapeutica ipocolesterolemizzante deve essere adeguata non solo rispetto al valore assoluto iniziale della colesterolemia, ma anche al livello di rischio cardiovascolare globale del paziente, quest’ultimo stimato con specifici algoritmi o carte del rischio. Inoltre, maggiore è il livello di rischio del paziente, più ambizioso dovrà essere l’obiettivo terapeutico da raggiungere per il colesterolo LDL.
Se è vero che la calibrazione dell’intensità dell’intervento terapeutico ipocolesterolemizzante in funzione dell’obiettivo da raggiungere costituisce un elemento di utilità clinica, analogamente tempestività e precocità di trattamento costituiscono elementi chiave dell’intervento ipocolesterolemizzante. Quest’ultima affermazione deriva da alcune considerazioni:
1) il rischio cardiovascolare legato alla colesterolemia è funzione dell’esposizione temporale cumulativa ai livelli circolanti di colesterolo;
2) esistono modelli genetici umani di ipocolesterolemia (es. mutazioni con perdita di funzione del gene che codifica per PCSK9) che si accompagnano a bassi livelli di colesterolo LDL sin dalla nascita, che producono riduzioni del rischio di eventi cardiovascolari eccedenti di gran lunga quelle attese in funzione del livello assoluto di colesterolo plasmatico;
3) la precocità della prescrizione farmacologica ipocolesterolemizzante si accompagna ad una maggiore persistenza terapeutica e, soprattutto nei pazienti a maggior rischio, ad una più efficace prevenzione del rischio cardiovascolare.
Le strategie terapeutiche per il raggiungimento di valori ottimali di colesterolo LDL, per i soggetti affetti da ipercolesterolemia, prevedono sia interventi sullo stile di vita che interventi farmacologici. Infatti, l’approccio terapeutico iniziale al paziente con ipercolesterolemia prevede innanzitutto l’attuazione di misure di intervento non farmacologiche. Una dieta corretta, che preveda un basso apporto di grassi saturi, di acidi grassi “trans” e di colesterolo ed un aumento dell’apporto di fibre alimentari, oltre che la prescrizione di un programma di esercizio fisico coerente alle possibilità di svolgimento dello stesso si accompagnano a riduzioni più o meno rilevanti del colesterolo LDL, azione favorevole per coloro affetti da ipercolesterolemia, ed un effetto favorevole su altri fattori di rischio cardiovascolare. L’intervento e sullo stile di vita è necessario non solo come approccio iniziale, ma anche allorquando si ravvisi l’opportunità di somministrare farmaci ipocolesterolemizzanti.
Per quanto riguarda l’intervento dietetico, è doveroso sottolineare alcuni aspetti che spesso ne limitano l’efficacia: la compliance da parte dei pazienti è spesso insoddisfacente e gravata da un elevato tasso di ridotta persistenza a medio-lungo termine; in aggiunta, alcuni componenti della dieta con possibile o provata azione ipocolesterolemizzante sono presenti in quantità modesta o funzionalmente insignificante negli alimenti.
Per tali motivi, negli ultimi anni si è diffusa la possibilità dell’utilizzo dei “nutraceutici”. I nutraceutici sono nutrienti e/o composti bioattivi presenti talora in alcuni alimenti, spesso di origine vegetale o microbica, con possibili effetti benefici sulla salute dell’uomo, se assunti in quantità nettamente superiore a quella presente negli alimenti stessi e che, quindi, devono essere addizionati a questi ultimi e/o assunti sotto forma di integratori alimentari (formulazioni liquide, compresse, capsule).
Ad oggi, si conta un numero sempre crescente di nutraceutici con presunta azione ipocolesterolemizzante e la ricerca scientifica a riguardo ha prodotto per alcuni di essi dati contrastanti, non completamente chiari e spesso con limiti metodologici di rilievo.
Questo documento si propone di valutare per i principali nutraceutici ad azione ipocolesterolemizzante (fibre, fitosteroli, derivati della soia, policosanoli, riso rosso fermentato e berberina): 1) il livello di evidenza circa l’efficacia ipocolesterolemizzante dedotta da studi di intervento effettuati nell’uomo; 2) i possibili effetti collaterali ed i rischi legati al loro impiego; 3) le categorie di pazienti che potrebbero beneficiarne.
§ Fibra
La fibra alimentare è costituita dalle parti edibili dei vegetali che sfuggono alla digestione nell’intestino tenue dell’uomo e transitano integre nell’intestino crasso. Essa include i polisaccaridi non amilacei (cellulosa, emicellulosa, gomme, pectine), gli oligosaccaridi (inulina, frutto- oligosaccaridi) e la lignina.
Da un punto di vista funzionale, la fibra alimentare può essere suddivisa in 4 classi (15):
- fibra insolubile, poco fermentescibile (crusca). Fibra non solubile in acqua scarsamente fermentata a livello intestinale; può avere un effetto lassativo di tipo meccanico;
- fibra solubile, non viscosa, che fermenta rapidamente (inulina, destrina, oligosaccaridi). Fibra solubile in acqua che non determina nessun aumento di viscosità; rapidamente e completamente fermentata dal microbiota intestinale. Può avere un effetto prebiotico ma non ha effetto lassativo;
- fibra solubile viscosa, che fermenta rapidamente (β-glucano, gomma guar, pectina). Forma un gel viscoso in acqua che aumenta la viscosità del chimo rallentando, di conseguenza, l’assorbimento dei nutrienti. Inoltre, viene fermentata rapidamente a livello intestinale, perdendo cosi l’effetto lassativo;
- fibra solubile viscosa non fermentescibile (psyllium, metilcellulosa). Riduce l’assorbimento dei nutrienti grazie alla sua viscosità e può avere un effetto
L’effetto ipocolesterolemizzante della fibra è associato in primo luogo alla sua viscosità. Infatti, le fibre viscose solubili in acqua formano un gel che lega gli acidi biliari nell’intestino tenue e aumenta la loro escrezione nelle feci. Il colesterolo è un componente importante della bile, e di conseguenza, l’aumentata escrezione di acidi biliari induce un maggiore utilizzo del colesterolo per la produzione epatica di bile. Più alta è la viscosità della fibra, maggiore è il suo potenziale ipocolesterolemizzante (16,17).
Inoltre, è stato suggerito un possibile meccanismo indiretto esercitato dai prodotti della fermentazione intestinale della fibra, noti come acidi grassi a corta catena (SCFA), che possono esercitare effetti favorevoli sul metabolismo lipidico (18).
Studi osservazionali hanno mostrato che il consumo abituale di fibra alimentare si associa alla riduzione del rischio cardiovascolare (19,20). In particolare, per ogni incremento di 10 g/die del consumo di fibra, specialmente da cereali integrali e frutta, è stata osservata una riduzione del 14% del rischio di eventi coronarici e del 27% di morte per malattia coronarica (21). Tale associazione può essere spiegata dagli effetti metabolici delle fibre, in primis quello ipolipemizzante.
Numerosi studi di intervento hanno valutato l’effetto del consumo di fibra sulla riduzione delle concentrazioni dei lipidi plasmatici. È noto che una dieta ricca in fibre, derivate soprattutto da legumi, frutta e verdura, induce una riduzione sia del colesterolo totale sia della frazione legata alle LDL (22-24).
Per quanto riguarda l’effetto dei cereali integrali, l’evidenza è ancora limitata e piuttosto controversa.
Sulla base delle evidenze riportate, da molti anni viene raccomandato un consumo di fibre di circa 35 g/die per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Tuttavia, in tutto il mondo l’assunzione di fibre è inferiore alla dose giornaliera raccomandata (25-27); questo accade anche nei paesi del Mediterraneo, abituati almeno nel passato, ad un maggior consumo di fibre (26,27).
Pertanto, negli ultimi anni sempre più interesse è stato rivolto allo studio dell’effetto ipocolesterolemizzante del consumo di singole fibre aggiunte alla dieta abituale. Le principali evidenze derivanti da studi di intervento randomizzati e controllati e da metanalisi di questi studi sono riportate nella tabella 1. Nel complesso i risultati mostrano che la supplementazione dietetica con fibre quali, β-glucano d’avena (28,29), psyllium (28,30,31), pectine (28), gomma guar (28) chitosano (32), glucomannano (33) e idrossipropilmetilcellulosa (34,35), riduce in maniera significativa le concentrazioni di colesterolo LDL in soggetti sani, in pazienti ipercolesterolemici ed in quelli affetti da diabete mellito. Tale riduzione si osserva anche negli studi che hanno valutato l’effetto della supplementazione di fibra in aggiunta alla terapia farmacologica ipocolesterolemizzante con statine, alcuni dei quali sono stati effettuati per un periodo abbastanza lungo (6 mesi).
L’effetto ipocolesterolemizzante delle specifiche fibre si colloca in un range che va dal 4% (chitosano) al 14% (gomma guar) in relazione alle dosi medie utilizzate nei diversi studi. È da sottolineare che questo effetto può essere maggiore se la dose di fibra utilizzata è più alta e che anche a dosi elevate non si osservano effetti collaterali di rilievo.
L’effetto delle fibre sui trigliceridi e sulla frazione di colesterolo legata alle HDL è meno chiaro (Tabella 1), sebbene alcuni studi suggeriscano un loro possibile effetto nel ridurre la trigliceridemia postprandiale (36,37); sono necessari ulteriori studi di intervento randomizzati, controllati e disegnati ad hoc per fornire una risposta chiara sull’efficacia della fibra alimentare nella variazione di questi due importanti parametri lipidici.
In aggiunta a quanto detto, è da sottolineare che le fibre hanno effetti favorevoli anche su altri parametri, quali la glicemia, l’insulinemia, la pressione arteriosa ed il peso corporeo (18).
Sulla base dei risultati di questi studi, le fibre riportate nella tabella 2 sono state oggetto di un claim da parte della Food and Drug Administration (FDA) (β-glucano e psyllium) e dell’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) (β-glucano, chitosano, glucomannano, gomma guar, idrossipropilmetilcellulosa e pectine) per il mantenimento di livelli ottimali di colesterolo.
In conclusione, il consumo abituale di fibra, soprattutto di tipo viscoso, riduce le concentrazioni di colesterolo LDL. In caso di difficoltà a raggiungere un apporto adeguato di fibra con la sola dieta, l’utilizzo di fibra aggiunta agli alimenti (cibi addizionati in fibra) o di integratori contenenti fibra (capsule, estratti) può rappresentare una valida strategia per ottenere un effetto ipocolesterolemizzante e, di conseguenza, una possibile riduzione del rischio cardiovascolare. Non sono stati registrati effetti collaterali di rilievo legati ad un eccessivo introito di fibra (38,39), ad esclusione di sintomi da disconfort intestinale (gonfiore, flatulenza, meteorismo) (39). Pertanto, valutando i possibili vantaggi e svantaggi, e considerando il costo non molto elevato, l’uso di tali componenti può essere utile (tabella 3):
- nella popolazione generale che non riesce ad aumentare l’apporto di fibra con la sola dieta;
- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e rischio cardiovascolare non elevato;
- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e sindrome metabolica.
§ Fitosteroli
I fitosteroli e i loro derivati esterificati (stanoli) sono componenti bioattivi di origine vegetale che presentano una struttura chimica molto simile a quella del colesterolo e che vengono assorbiti in quantità molto limitata (0.5-2% per gli steroli e 0.04-0.2% per gli stanoli). Si trovano in natura in piccole quantità in alimenti di origine vegetale (frutta, verdura, noci, semi, cereali, legumi e oli vegetali) e il loro consumo medio nella dieta è di circa 300 mg/die, ma può essere più alto nei soggetti vegetariani (600 mg/die) (40).
Il meccanismo alla base dell’effetto ipocolesterolemizzante dei fitosteroli è da ricondurre alla loro omologia di struttura con il colesterolo. Infatti, a livello intestinale, i fitosteroli competono con il colesterolo, sia quello di origine alimentare che quello di derivazione biliare, sostituendolo nelle micelle e limitandone, di conseguenza, l’assorbimento. In seguito, vengono traghettati nuovamente nel lume intestinale ad opera dei trasportatori ABCG5 e ABCG8 ed escreti con le feci (41).
Studi trasversali hanno mostrato un’associazione inversa tra consumo di fitosteroli di origine naturale e livelli di colesterolo LDL (42-44).
In linea con questi risultati, le evidenze derivanti da diversi studi di intervento randomizzati e controllati e da metanalisi di tali studi mostrano che il consumo di prodotti contenenti fitosteroli riduce in maniera significativa le concentrazioni di colesterolo totale e della frazione legata alle LDL di circa 12 mg/dl (~ 8-10%), sia in soggetti sani che in soggetti con ipercolesterolemia (45-52) (Tabella 4). Tale entità di riduzione è stata rilevata anche in una metanalisi di studi di intervento condotti in pazienti diabetici (53) (Tabella 4).
Anche per i fitosteroli, l’effetto sui trigliceridi e sul colesterolo-HDL è poco chiaro. Infatti, gli studi clinici presenti in letteratura forniscono risultati contrastanti e le evidenze derivanti da metanalisi non mostrano effetti significativi della supplementazione di fitosteroli su questi parametri biochimici (47,51-53) (Tabella 4).
L’effetto ipocolesterolemizzante dei fitosteroli sembra essere maggiore nei pazienti con livelli di colesterolo LDL plasmatico >160 mg/dl (46-49). Nei pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare, sembra che l’efficacia ipocolesterolemizzante dei fitosteroli sia maggiore nei soggetti eterozigoti rispetto a quelli omozigoti (54). Non sono state descritte interazioni negative di questi composti bioattivi con i principali farmaci ipolipemizzanti (statine, ezetimibe, fibrati). Inoltre, sembra esserci un effetto ipocolesterolemizzante additivo quando i fitosteroli vengo assunti in associazione alle statine e all’ezetimibe (40).
L’efficacia del consumo di fitosteroli è dose dipendente per dosi somministrate < 3 g/die; al di sopra di questa dose si osserva un effetto plateau, ovvero non sembra esserci un ulteriore effetto significativo sul colesterolo LDL. Inoltre, le evidenze scientifiche mostrano che non ci sono differenze di efficacia tra steroli e stanoli vegetali fino ad un consumo di 2 g/die (55), che rappresenta la dose di fitosteroli raccomandata dalle principali società scientifiche (1,56-58).
Difficilmente la dieta, anche se completamente vegetariana, garantisce un consumo soddisfacente di fitosteroli; pertanto, i fitosteroli vengono impiegati per arricchire alimenti e bevande (più frequentemente margarine, yogurt da bere, formaggi spalmabili ma anche prodotti da forno) o entrano a fare parte dei costituenti di alcuni integratori.
Se i fitosteroli vengono utilizzati alle dosi raccomandate non presentano effetti collaterali di rilievo. Un eccessivo consumo di fitosteroli può associarsi, invece, ad un deficit di assorbimento delle vitamine liposolubili; pertanto, è necessario consigliare al paziente che consuma fitosteroli il consumo di una dieta ricca di questi composti.
È da sottolineare, inoltre, l’esistenza di una rara malattia autosomica recessiva da accumulo di fitosteroli, nota come β-sitosterolemia. Tale patologia, causata da mutazioni dei geni codificanti per i trasportatori intestinali ABCG5 o ABCG8, induce un’alterata eliminazione dei fitosteroli ed un loro maggiore assorbimento. Tale condizione patologica è associata alla presenza di grave ipercolesterolemia, allo sviluppo precoce di placche aterosclerotiche e ad un aumento della morbilità e della mortalità cardiovascolare (59). La β-sitosterolemia può presentarsi in forma di omozigosi o eterozigosi. La forma omozigote si manifesta in età pediatrica ed è caratterizzata da un iperassorbimento di tutti gli steroli; l’eterozigosi, invece, non presenta alcuna sintomatologia e può tollerare l’introito di steroli con la dieta. Non è nota la dose soglia oltre la quale il consumo di fitosteroli sia dannosa per i soggetti eterozigoti, ma è stato dimostrato che non ci sono effetti collaterali per un consumo abituale di 2 g/die.
Alla luce di queste evidenze, la FDA e l’EFSA hanno formulato un claim per la riduzione del colesterolo LDL mediato dai fitosteroli (tabella 2). In particolare, l’EFSA raccomanda di non eccedere la dose di 3 g/die e suggerisce che i pazienti in trattamento farmacologico con ipolipemizzanti dovrebbero consumare il prodotto sotto la supervisione del medico. Inoltre, L’FDA ha formulato l’health claim per la riduzione del rischio di malattia coronarica per una dose di fitosteroli fino a 3.4 g/die.
In conclusione, in accordo con le principali società scientifiche internazionali (1,56-58), il consumo abituale di 2 g/die di fitosteroli può essere utile al fine di ottenere una riduzione del colesterolo LDL del 7-10% (tabella 3):
- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e rischio cardiovascolare non elevato nei quali non sia ancora indicata una terapia farmacologica;
- nei pazienti già in terapia farmacologica che non riescano a raggiungere livelli adeguati di colesterolo LDL;
- nei pazienti intolleranti alle statine
Come per la maggior parte dei nutraceutici bisogna considerare il costo elevato, soprattutto in considerazione del fatto che, per mantenere gli effetti sul colesterolo LDL, è necessario che tale supplementazione sia costante e continuativa nel tempo (tabella 3).
§ Soia
La soia (Glycine max) è una pianta leguminosa originaria dell’Asia orientale, coltivata per i suoi semi ricchi di proprietà nutritive. Pur essendo un legume ricco di proteine (36-46%, in relazione alla varietà), lipidi (18%), carboidrati solubili (15%) e fibre (15%), si distingue profondamente dagli altri legumi per le sue peculiarità riguardanti sopratutto la qualità delle proteine, ad elevato contenuto di aminoacidi essenziali. La soia contiene, inoltre, numerosi micronutrienti quali lecitina (0.5%), steroli (0.3%), isoflavoni (0.1%), tocoferoli (0.02%) e livelli molto bassi di tocotrienoli, sfingolipidi e lignani (60). I vantaggi nutrizionali ed i benefici sulla salute della soia sono stati studiati per molti anni, partendo da osservazioni epidemiologiche che suggeriscono una relazione inversa tra il consumo di soia e il rischio di malattie cardiovascolari. L’effetto ipocolesterolemizzante della soia viene solitamente attribuito agli isoflavoni, associati alla frazione proteica. Gli isoflavoni sono una classe di fitoestrogeni capaci di legare il recettore degli estrogeni ed avere attività simil-estrogenica, influenzando così il metabolismo lipidico direttamente attraverso la modulazione della lipogenesi e della lipolisi, o indirettamente modulando l’appetito e il bilancio energentico (61). La quantità di isoflavoni varia ampiamente in relazione alla varietà di soia, alle condizioni di coltura e soprattutto in relazione alle modalità di processazione della soia stessa (62). La soia integra, poco utilizzata nei paesi occidentali, contiene la più alta concentrazione di isoflavoni (100%), la cui presenza si riduce progressivamente con l’aumentare del grado di processazione della soia (farina di soia 85%, tofu 23%, latte di soia 15%) (62).
La riduzione della colesterolemia associata al consumo di soia potrebbe essere, però, dovuta ad un’azione sinergica dei suoi vari costituenti (63). Infatti, ad essa potrebbe contribuire la riduzione dell’assorbimento intestinale del colesterolo da parte della lecitina (una classe naturale di fosfolipidi) e degli steroli della soia (il più rappresentato è il beta-sitosterolo, 60-65%) (60), ma anche l’aumentata escrezione di acidi biliari favorita dal β-glucano, con conseguente aumento del metabolismo e riduzione dell’assorbimento di colesterolo (64). Inoltre, le proteine della soia, in particolare la β-conglicinina (globulina 7S) e la glicinina (globulina 11S), e i loro peptidi ottenuti mediante idrolisi a livello intestinale, potrebbero svolgere un azione ipocolesterolemizzante, soprattutto a livello epatico, attivando il recettore LDL (LDLR) (65,66).
Una metanalisi di 38 studi condotti fra il 1967 e il 1994, ha concluso che l’impiego di proteine della soia è in grado di ridurre il livelli di colesterolo LDL del 12.9% (67). Questa osservazione ha portato nel 1999 ad un claim della FDA (tabella 2) che suggeriva il consumo alimentare di 25 g/die di proteine della soia per favorire la riduzione del rischio cardiovascolare, anche in assenza di studi di intervento su endpoints cardiovascolari (68). Tuttavia, numerose metanalisi successive (51, 69-76) hanno dimostrato che la riduzione del colesterolo LDL associato al consumo di proteine della soia è compresa fra il 4% e il 6% (Tabella 5). Nel 2012 l’EFSA ha nuovamente respinto un claim in favore degli effetti benefici della soia per mancanza di evidenza di una relazione causa-effetto (77), ma una recente valutazione dell’Health Canada ha evidenziato che nel 33% degli studi di intervento con proteine isolate e proteine concentrate della soia, si osserva una riduzione significativa del colesterolo LDL (78). Gli studi che si sono susseguiti negli ultimi anni hanno fornito risultati contraddittori sugli effetti ipocolesterolemizzanti della soia (77-81).
L’incoerenza dei dati osservati può avere numerose spiegazioni: la soia contiene differenti componenti bioattivi capaci di influenzare i livelli di colesterolo LDL, sebbene non sia del tutto chiaro quale di questi sia maggiormente responsabile dell’effetto ipocolesterolemizzante; differenze nel tipo, nella dose e nella durata dell’integrazione con soia e le diverse popolazioni studiate, non rappresentative della popolazione generale, rendono difficile il confronto fra gli studi e l’interpretazione dei risultati. Infine, non si deve dimenticare che il riscontro di una riduzione statisticamente significativa, ma di modestà entità, dei livelli di colesterolo LDL potrebbe non associarsi necessariamente ad un beneficio clinico rilevante, soprattutto in mancanza di dati di outcome cardiovascolare. Pertanto, la soia resta di per sè un cibo salutare e il suo impiego nella dieta dovrebbe essere incoraggiato, in quanto fonte abbastanza completa di proteine vegetali, fibre, grassi insaturi, vitamine, minerali e fitonutrienti. Inoltre, i prodotti della soia possono essere un utile sostituto di cibi di origine animale, ricchi in grassi saturi e colesterolo. Sebbene, le evidenze in supporto di una integrazione con derivati della soia siano attualmente contradditorie per poter dare indicazioni precise, tale supplementazione potrebbe essere presa in considerazione in alcune tipologie di soggetti (tabella 3):
- nella popolazione generale
- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e rischio cardiovascolare non elevato
§ Policosanoli
I policosanoli (PCS) sono una miscela di alcoli alifatici lineari a lunga catena (octacosanolo, tetracosanolo, esacosanolo, ed altri) presenti nella cera d’api, nelle patate, nella crusca di riso e nella canna da zucchero (82). Il meccanismo attraverso cui i PCS potrebbero ridurre il colesterolo non è stato ancora completamente chiarito, ma si suppone sia legato ad una riduzione dell’espressione cellulare della HMGCoA reduttasi con conseguente ridotta sintesi del colesterolo (83,84). I PCS sono stati utilizzati come agenti ipolipemizzanti a Cuba fin dal 1991 e fino al 2004 tutte le pubblicazioni su riviste mediche relative all’effetto ipocolesterolemizzante dei PCS sono state prodotte da ricercatori dell’Havana (85-99), supportati dal medesimo sponsor. Questi studi iniziali (100,101) hanno mostrato che i PCS derivati dalla canna da zucchero avevano un capacità di ridurre il colesterolo LDL superiore a quella degli steroli vegetali, simile alle statine ed una maggiore capacità di aumentare i livelli di colesterolo HDL rispetto a queste ultime, in assenza di effetti collaterali (tabella 6). L’effetto ipocolesterolemizzante sembrerebbe dose dipendente in un range compreso tra 2 e 40 mg/die. Più recentemente, gli effetti benefici dei PCS sulla colesterolemia sono stati messi in discussione dalla pubblicazione di diversi studi randomizzati, controllati, condotti in Europa e negli USA, che non hanno documentato effetti benefici dei PCS sulla colesterolemia nelle diverse popolazioni studiate; la mancanza di efficacia ipocolesterolemizzante è stata documentata tanto per i PCS derivati dalla canna da zucchero e prodotti a Cuba (102,103), quanto per quelli di origine differente (104,105). Nel 2011 l’EFSA ha respinto un claim in favore degli effetti benefici dei PCS per mancanza di evidenza di una relazione causa-effetto (106). Pertanto, fin quando non ci sarà dimostrazione concorde di efficacia dei PCS da parte di gruppi di studio indipendenti, non è opportuno raccomandarne l’integrazione.
§ Riso rosso fermentato
Il riso rosso fermentato (RRF) è un prodotto fermentato di riso usato per secoli in Cina per la preparazione del vino di riso, come esaltatore di sapidità, come colorante alimentare ed a scopo terapeutico come “coadiuvante della digestione e della circolazione” (107).
La fermentazione del riso rosso da parte del lievito Monascus purpureus produce, tra le tante, una sostanza denominata monacolina K, capace di inibire la HMGCoA reduttasi e quindi la sintesi di colesterolo, strutturalmente e funzionalmente analoga alla lovastatina (107,108).
L’effetto ipocolesterolemizzante del RRF potrebbe essere solo in parte attribuibile all’azione della monacolina K. Infatti, il RRF contiene almeno 10 diverse monacoline, molte con presunta attività inibitoria sulla HMG-CoA reduttasi. Inoltre, il RRF contiene beta-sitosterolo e campesterolo, sostanze in grado di limitare l’assorbimento intestinale del colesterolo, nonché fibre e niacina, capaci di esercitare anch’esse un effetto ipocolesterolemizzante (108,109).
Diversi studi hanno dimostrato che il RRF risulta efficace e sicuro nel trattamento di pazienti con ipercolesterolemia lieve-moderata. Studi controllati contro placebo, anche di durata superiore a 4 anni, hanno dimostrato un effetto ipocolesterolemizzante del RRF, con una riduzione variabile del colesterolo totale dal 16% al 31% e del colesterolo LDL dal 22% al 32% (110). Nei diversi trials condotti, la dose giornaliera di RRF è risultata essere variabile e con essa anche il contenuto in monacolina K dei diversi supplementi a base di RRF (Tabella 7); in alcuni dei trials in questione sono state impiegate dosi di monacolina K superiori a 10 mg/die.
Il primo studio prospettico controllato con placebo in doppio cieco eseguito nella popolazione americana è stato condotto nel 1999 (111). Pazienti con iperlipidemia non trattata sono stati randomizzati a ricevere 2.4 g al giorno di RRF o placebo per 12 settimane. Al termine dello studio, i livelli di colesterolo LDL sono risultati significativamente diversi (p <0.001) tra i due gruppi: rispetto alla rilevazione basale, i livelli di colesterolo LDL si sono ridotti di 39±19 mg/dL (22%) nel gruppo trattato con RRF e di 5±22 mg/dL (5%) nel gruppo placebo. Non sono stati segnalati eventi avversi nei due bracci di intervento (111). Numerosi altri trials clinici con RRF, inclusi in alcune metanalisi (112-115), hanno mostrato risultati sovrapponibili in diverse popolazioni di studio (Tabella 7). Ad esempio, in una metanalisi di tredici studi randomizzati controllati contro placebo (113) condotta in oltre 800 pazienti dislipidemici, si è visto che il RRF è risultato capace di ridurre significativamente i livelli di colesterolo LDL (-34 mg/dL, 95% CI -28/-40 mg/dl; p <0,001) rispetto al placebo. Un dato di estrema rilevanza emerso da questa metanalisi è che l’effetto ipocolesterolemizzante del RRF non è risultato essere correlato alla dose od alla durata dell’intervento con il nutraceutico né si è accompagnato ad effetti collaterali di rilievo.
Risultati sovrapponibili sono stati documentati in altre metanalisi (112,114,115), nelle quali si conferma l’efficacia ipocolesterolemizzante del RRF ed il buon profilo di tollerabilità del nutraceutico. In particolare, la metanalisi di Gerards e coll. (114) ha mostrato che l’incidenza di eventi avversi muscolari, epatici e renali è risultata sovrapponibile tra il RRF ed il placebo; inoltre, gli autori, pur riconoscendo che i dati sulla sicurezza del RRF nei diversi trials inclusi nella metanalisi sono parziali, ribadiscono quanto già noto circa il modesto rilievo clinico dei rari ma possibili eventi avversi del RRF (114).
Diversi studi randomizzati hanno esaminato il profilo di tollerabilità del RRF in pazienti che hanno interrotto o rifiutato il trattamento con statine. La tollerabilità del RRF è stata confrontata con quella della pravastatina in pazienti con una storia di mialgia da statina (116). I due gruppi di trattamento, entrambi con bassa prevalenza di mialgie (5% nel gruppo RRF e 9% nel gruppo pravastatina) hanno ottenuto una riduzione sovrapponibile del colesterolo LDL (30% nel gruppo RRF e 27% nel gruppo pravastatina). In pazienti con dimostata intolleranza a più statine, l’intervento con 3.6 g/die di RRF ha portato ad una riduzione della colesterolemia LDL del 27% rispetto al placebo, con un profilo di tollerabilità sovrapponibile tra RRF e placebo (117). In particolare, i livelli di CPK e transaminasi e la scala del dolore non sono risultati differenti nei due gruppi di intervento. I meccanismi che giustificano la riportata migliore tollerabilità del RRF non sono del tutto chiari.Ad oggi è stato condotto un trial di prevenzione secondaria finalizzato a valutare l’efficacia del RRF sul rischio di eventi cardiovascolari. Il China Coronary Secondary Prevention Study (118) è stato condotto in una popolazione di 4870 pazienti cinesi con pregresso infarto del miocardio ed ipercolesterolemia moderata, randomizzati a ricevere per 5 anni un estratto purificato di RRF (5-6.4 mg di monacolina K), lo Xuenzhikang, o il placebo. L’intervento con RRF, oltre a promuovere una riduzione del 20% dei livelli di LDL colesterolo, ha determinato una riduzione significativa del rischio di eventi coronarici del 45% rispetto al placebo. Il trattamento con RRF ha ridotto significativamente la mortalità totale del 33%, la mortalità cardiovascolare del 30%, e la necessità di interventi di rivascolarizzazione coronarica del 33%, a fronte di un profilo di tollerabilità sovrapponibile al placebo. L’effetto protettivo cardiovascolare del RRF sembra essere avvalorato dalla dimostrazione che la sua somministrazione si accompagna ad un miglioramento della funzione endoteliale (119).
A sostegno del possibile impiego del RRF nel paziente con ipercolesterolemia, le linee guida europee per il trattamento delle dislipidemie, annoverano il RRF tra gli integratori dietetici con attività ipocolesterolemizzante (1).
L’EFSA, in un claim del 2011, ha avvalorato la relazione causa-effetto tra consumo di RRF e mantenimento di un’adeguata concentrazione di colesterolo LDL nella popolazione generale adulta; tale effetto sarebbe in relazione con un consumo di 10 mg/die di monacolina K. A questo dosaggio, per la monacolina K si applicano le restrizioni cui è soggetta la medesima dose di lovastatina. La FDA nel 2007 ha affermato in un claim i potenziali rischi derivanti dall’acquisto in rete di alcuni prodotti contenenti RRF (ad esempio prodotti non autorizzati); dal 2007, la FDA non ha espresso ulteriori pareri in merito (Tabella 2). La sicurezza dei diversi preparati commerciali contenenti RRF è oggetto di dibattito. È emersa un’ampia variabilità di composizione tra i prodotti commerciali contenenti RRF (120): preparazioni commerciali che riportavano in etichetta un contenuto pari a 600 mg di RRF per capsula, contenevano una quantità di monacolina K variabile tra 0,31 e 11.15 mg/capsula. Inoltre, in alcuni prodotti contenenti RRF è stata rilevata la presenza di citrinina (121), una micotossina con possibile tossicità a livello renale. Ciò suggerisce la assoluta necessità di avvalersi di preparati contenenti RRF che, oltre a godere di una letteratura scientifica che confermi l’efficacia ipocolesterolemizzante, diano garanzie di purezza e sicurezza del prodotto commercializzato.
Sulla base di quanto è ad oggi noto, le categorie di pazienti che maggiormente potrebbero beneficiare dell’utilizzo di preparati a base di RRF contenenti dosi di monacolina K ≤10 mg/die sono (Tabella 3):
– pazienti a rischio cardiovascolare lieve-moderato con livelli di colesterolo LDL superiori rispetto agli obiettivi terepeutici raccomandati di non oltre il 20-25%, nonosante siano state attuate misure di trattamento dietetico e modifiche dello stile di vita.
§ Berberina
La berberina (BBR) è un alcaloide isochinolinico vegetale appartenente alla classe delle protoberberine presenti in diverse piante, quali Berberis vulgaris, Coptis chinensis, Berberis aristata (122). La BBR ha diverse proprietà farmacologiche, anti-microbica, immuno-modulatoria, anti-tumorale e metabolica (122). Diversi studi hanno dimostrato che la BBR esercita numerose altre azioni favorevoli sul sistema cardiovascolare, promuovendo la vasodilatazione, riducendo il rischio di insufficienza cardiaca congestizia, ipertrofia cardiaca e di aritmie (123).
L’effetto ipocolesterolemizzante della BBR può essere ascritto a diversi meccanismi d’azione. È stato descritto che la BBR promuove un aumento dell’espressione e dell’emivita del LDLR sulla superficie degli epatociti (124); stimolando l’attivazione della via JNK/c-jun, aumenterebbe la attività trascrizionale del promotore LDLR e, modulando ERK, stabilizzerebbe l’mRNA del LDLR (125). Il risultato netto è un aumento del espressione del LDLR. Studi in vitro hanno mostrato che la BBR riduce l’espressione di PCSK9; poiché PCSK9 promuove la degradazione lisosomiale di LDLR, l’inibizione di PCSK9 da parte della BBR aumenterebbe la disponibilità di LDLR (126). Sembra inoltre che la BBR possa ridurre i livelli di lipidi plasmatici inibendo la sintesi epatica di colesterolo e trigliceridi attraverso l’attivazione di AMPK, che a sua volta inattiva l’HMGCoA reduttasi (127).
Il primo studio che ha valutato l’effetto della BBR in una popolazione di pazienti ipercolesterolemici cinesi ne ha registrato un significativo effetto ipocolesterolemizzante ed ipotrigliceridemizzante, con una riduzione del colesterolo LDL del 25% e dei trigliceridi del 35% (125); questi effetti si sono dimostrati più marcati nei soggetti che non assumevano altri farmaci ipolipemizzanti.
L’effetto ipolipemizzante della BBR è stato valutato in almeno tre metanalisi (128-130, tabella 8). Dong e coll. (128,129) hanno condotto due metanalisi di trial clinici controllati in pazienti con ipercolesterolemia e/o diabete mellito di tipo 2. La dose di BBR impiegata nei vari studi inclusi nelle due metanalisi era compresa tra 0,5 g e 1,5 g/die. Il risultati delle metanalisi hanno mostrato risultati sovrapponibili: la BBR ha favorito una diminuzione media del colesterolo LDL di 25 mg/dL; questa variazione si è accompagnata ad una riduzione significativa della trigliceridemia ed un aumento modesto seppure significativo dei livelli di colesterolo HDL (Tabella 8).
L’efficacia ipolipemizzante della BBR è stata confrontata con quella della simvastatina: una terapia di 2 mesi con BBR, simvastatina o entrambe in pazienti ipercolesterolemici ha portato a riduzioni significative dei livelli di colesterolo totale, LDL e trigliceridi (131). La terapia di combinazione si è dimostrata capace di ridurre la colesterolemia LDL in modo additivo rispetto ai singoli principi attivi; inoltre, l’aggiunta della BBR alla simvastatina ha amplificato in modo significativo il modesto effetto ipotrigliceridemizzante della statina (131).
Tra i possibili effetti collaterali della BBR, emersi per lo più nei trials che hanno impiegato dosi più elevate del nutraceutico, si ricordano stitichezza, diarrea, distensione addominale e sapore amaro in bocca (129). Dal momento che la somministrazione orale ripetuta di berberina riduce l’attività dei citocromi CYP2D6, CYP2D9 e CYP3A4 in soggetti sani (132), sono da considerare possibili interazioni tra BBR e farmaci che utilizzano le stesse vie di degradazione.
È doveroso segnalare che la quasi totalità dei trials di intervento con BBR sono stati condotti in popolazioni asiatiche, bias che rende meno generalizzabili i risultati osservati.
Un ulteriore aspetto da meglio comprendere è l’effettiva biodisponibilità dei diversi preparati a base di BBR. Se è vero che la supplementazione con BBR mediamente produce effetti favorevoli sul metabolismo lipidico, è altrettanto vero che l’assorbimento intestinale della BBR è spesso esiguo e con un’ampia variabilità interindividuale; questo aspetto potrebbe sottendere una possibile variabilità di efficacia del nutraceutico.
Alla luce dei dati segnalati, bisogna ricordare che nè l’EFSA e neppure la FDA hanno ancora espresso claims specifici relativi alla efficacia ipocolesterolemizzante ed alla sicurezza dei preparati contenenti berberina.
Sulla base delle informazioni disponibili, allorchè i risultati segnalati nelle popolazioni asiatiche fossero confermati in altre etnie, le categorie di pazienti che potrebbero beneficiare maggiormente del trattamento con BBR alla dose compresa tra 0,5 g e 1,5 g al giorno sono (Tabella 3):
- pazienti a rischio cardiovascolare lieve-moderato con livelli di colesterolo LDL superiori rispetto agli obiettivi terepeutici raccomandati di non oltre il 20%, nonosante siano state attuate misure di trattamento dietetico e modifiche dello stile di vita;
- pazienti con ipercolesterolemia lieve-moderata e sindrome metabolica, in particolare quelli con aumento modesto di trigliceridi o con disglicemia iniziale, eventualmente in associazione ad una statina;
- pazienti a diverso grado di rischio nei quali sia documentata una reale intolleranza a più statine o che rifiutano l’intervento con statina
Effetti della supplementazione combinata di nutraceutici
Le evidenze scientifiche che mostrano l’effetto ipocolesterolemizzante di alcuni nutraceutici ha destato un notevole interesse per l’argomento ed ha stimolato lo sviluppo di preparati (alimenti o integratori) contenenti più composti bioattivi al fine di ottenere un maggiore riduzione della concentrazione di colesterolo totale e soprattutto della frazione legata alle LDL.
La possibilità di combinare diversi nutraceutici nasce, oltre che dall’esigenza di sfruttare possibili effetti complementari dei singoli nutraceutici, anche dalla esigenza di impiegare dosi di nutraceutici quanto più basse possibili, al fine di garantire la migliore tollerabilità della combinazione, pur conservando l’efficacia ipocolesterolemizzante.
Gli studi di intervento randomizzati e controllati condotti per supportare scientificamente questa possibilità sono attualmente poco numerosi.
Recentemente, l’effetto della combinazione di fibra e fitosteroli è stato riassunto in una review di studi di intervento condotti in soggetti normolipidemici o con ipercolesterolemia moderata (133); i risultati hanno mostrato una riduzione media del colesterolo totale e della frazione legata alle LDL dell’8 e dell’11%, rispettivamente. Tuttavia, risulta evidente che il tipo di fibra somministrato in combinazione con i fitosteroli sia di notevole importanza per incrementare l’effetto ipocolesterolemizzante. Inoltre, solo due studi hanno comparato l’effetto del singolo componente contro la combinazione; i risultati sembrano indicare un effetto ipocolesterolemizzante leggermente più elevato con la combinazione di fitosteroli e fibra viscosa (134,135).
La combinazione di fitosteroli e RRF non sembra comportare un beneficio ipocolesterolemizzante aggiuntivo rispetto all’assunzione dei singoli nutraceutici (136).
Come già detto, il trattamento con BBR si è accompagnato ad una riduzione media della colesterolemia LDL di circa il 20%; l’aggiunta alla BBR di RRF, PCS, astaxantina (ASX), coenzima Q10 ed acido folico ha determinato una riduzione della colesterolemia LDL di circa il 25%, senza un aumento di effetti collaterali (137).
Tale combinazione si è dimostrata capace di ridurre in modo significativo i livelli di colesterolo totale, LDL e trigliceridi in pazienti ipercolesterolemici (138); la stessa combinazione nutraceutica ha consentito di ridurre anche l’indice HOMA, a suggerire un possibile effetto positivo sulla sensibilità insulinica.
Altri studi condotti in diverse categorie di pazienti, affetti da ipercolesterolemia poligenica, con malattia aterosclerotica coronarica documentata, con intolleranza alle statine, in bambini con ipercolesterolemia familiare eterozigote o iperlipemia familiare combinata, hanno testato l’efficacia ipocolesterolemizzante e la sicurezza della combinazione RRF/BBR/PCS/ASX (139-145). Nel complesso, questi studi hanno confermato che la combinazione nutraceutica in esame è stata capace di ridurre in modo significativo i livelli di colesterolo LDL (dal 15% al 32%), con un tendenza a ridurre la colesterolemia in modo più rilevante nei pazienti con più alti livelli pre-trattamento di colesterolo LDL. Infine, studi con casistica piuttosto contenuta hanno mostrato che la combinazione di RRF/BBR/PCS/ASX è in grado di migliorare la funzione endoteliale e la rigidità della parete aortica (138,139).
Sebbene l’impiego di formulazioni combinate di nutraceutici potrebbe presentare vantaggi sul piano del profilo di efficacia del prodotto e, minimizzando la dose dei singoli componenti, sulla loro tollerabilità, è opportuno sottolineare che non vi sono al momento dati che supportano un effetto sinergico ipocolesterolemizzante dei componenti delle varie combinazioni nutraceutiche disponibili in commercio. Infine, il beneficio ipocolesterolemizzante offerto dall’aggiunta di PCS alle diverse combinazioni nutraceutiche è discutibile.
Problematiche comuni
La possibilità di utilizzare nutraceutici ad attività ipocolesterolemizzante, sia sotto forma di alimenti funzionali che di integratori alimentari, può rappresentare una strategia di intervento importante ma potrebbe comportare anche dei rischi, alcuni dei quali comuni a tutti i nutraceutici, altri legati al singolo composto.
In primo luogo, la durata limitata di gran parte dei trials che hanno testato l’efficacia ipocolesterolemizzante dei principali nutraceutici esaminati e la dimensione contenuta delle popolazioni di studio, sebbene integrata da metanalisi, suggeriscono l’opportunità di replicare i risultati in casistiche più estese e possibilmente multi-centriche.
Sul piano pratico, l’uso di tali preparati potrebbe stimolare i pazienti in trattamento farmacologico a ridurre o sospendere la terapia farmacologica senza consultare il proprio medico. In effetti, alcuni studi hanno mostrato la propensione all’automedicazione o alla scarsa compliance al trattamento farmacologico dei pazienti in terapia con statine che erano a conoscenza degli effetti benefici del consumo di fitosteroli (146,147). In linea generale, inoltre, l’impiego dei nutraceutici ad azione ipocolesterolemizzante non deve essere considerato sostitutivo di misure consolidate di intervento farmacologico nei pazienti con ipercolesterolemia genetica e nelle altre categorie di pazienti a rischio cardiovascolare alto o molto alto.
Un altro aspetto da considerare è che il costo degli alimenti funzionali è di gran lunga superiore rispetto a quello degli alimenti non arricchiti. Ad esempio, un report dell’EFSA del 2008 ha mostrato che il costo/kg dei prodotti arricchiti in steroli vegetali può essere fino a 4 volte superiore rispetto a quello dei prodotti tradizionali originari non arricchiti (148). Lo stesso fenomeno si verifica per il RRF e la BBR, il cui costo è superiore rispetto a quello di una statina generica.
Pertanto, considerando che sembra esserci un significativo rapporto tra il livello socioeconomico e il profilo dei consumi dei prodotti alimentari (149,150), il costo dei nutraceutici può potenzialmente costituire un deterrente per l’acquisto regolare di questi prodotti e, di conseguenza, per il loro consumo abituale. Questo è un punto importante da tenere presente perché per i nutraceutici, così come per i farmaci ipocolesterolemizzanti, l’effetto terapeutico è strettamente legato alla loro assunzione; di conseguenza, se si ritiene che sia utile assumere un nutraceutico, questo deve essere assunto in modo continuativo o, almeno, fino a quando non si decida di modificare la strategia di intervento terapeutico.
Infine, la disponibilità dei prodotti nutraceutici anche a livello della grande distribuzione (supermercati, e-commerce) senza un adeguato controllo, predispone al rischio di un consumo incontrollato di tali prodotti che, nel caso di assunzione di dosi superiori a quelle raccomandate, potrebbe avere ripercussioni sulla salute dei consumatori; questo è tanto più vero per alcuni nutraceutici con proprietà che potremmo definire “farmacologiche”.
Quanto riportato in questo documento sottolinea la assoluta necessità di uno stretto colloquio tra nutrizionisti, operatori sanitari e pazienti al fine di evitare il dilagare di un uso improprio ed incontrollato di nutraceutici. La attenta sorveglianza delle prescrizioni e soprattutto delle auto- medicazioni, il controllo della adeguatezza delle dosi assunte e della continuità della integrazione alimentare, la verifica da parte delle autorità deputate ai controlli alimentari e dei farmaci sono elementi di assoluto rilievo che devono essere implementati per promuovere un uso sicuro e razionale dei nutraceutici più efficaci e che godono del migliore profilo di tollerabilità. Un ruolo centrale in molti di questi processi deve essere rivestito dal medico, consapevole dei rischi ma anche dei possibili benefici derivanti da un uso controllato di singoli nutraceutici o di combinazioni razionali di nutraceutici.
Conclusioni
Sulla base dei dati della letteratura, si può concludere che per alcuni dei nutraceutici (fibra, fitosteroli, RRF), la riduzione del colesterolo LDL è consistente nei vari studi ed il livello di evidenza scientifica per quanto riguarda l’effetto ipocolesterolemizzante è buono (tabella 9), per cui il loro utilizzo può essere raccomandato in alcune particolari categorie di pazienti, come riportato in tabella 3. Per quanto riguarda la BBR, le evidenze sono discrete, anche se ottenute da studi di intervento effettuati pressoché esclusivamente nella popolazione asiatica, per cui risultano poco trasferibili ad altre popolazioni (tabella 9). Per i derivati della soia i dati sono contrastanti e, infine, per i PCS, i dati scientifici non sono conclusivi (tabella 9). Per quanto riguarda le combinazioni di nutraceutici, quella che sembra godere del maggior numero di evidenze sull’efficacia ipocolesterolemizzante e sulla sicurezza è la combinazione costituita da basse dosi di RRF/BBR/PCS/ASX, anche se, sulla base dei dati finora disponibili, non sembra esserci un effetto sinergico ipocolesterolemizzante esercitato dai componenti delle diverse combinazioni precostituite di nutraceutici.