Nonostante negli ultimi anni si sia osservata una significativa riduzione della loro incidenza (che sostanzialmente conferma la validità delle strategie di prevenzione messe in atto al proposito),1 le malattie cardiovascolari su base aterosclerotica continuano a rappresentare nel mondo moderno una delle principali cause di invalidità e di morte. Si tratta di malattie a genesi tipicamente multifattoriale, alla cui comparsa contribuiscono molte condizioni (note come “fattori di rischio”) che la ricerca epidemiologica e clinica ha contribuito a identificare con buona chiarezza negli ultimi anni. Alcuni di questi fattori di rischio (ipercolesterolemia, ipertensione, sovrappeso) sono molto diffusi tra gli adulti, con prevalenze che spesso sono dell’ordine del 50% o più nella popolazione.2
Ci si potrebbe chiedere quali siano i motivi di questa amplissima diffusione di condizioni che comportano rischi per la salute molto elevati (le malattie cardiovascolari sono fatali, al primo esordio, nel 30-50% dei casi) e costi sanitari e sociali pure estremamente elevati. Con ogni probabilità la spiegazione è relativamente semplice: queste patologie colpiscono, nella grande maggioranza dei casi, individui oltre i 50-60 anni di età; in una fase della vita, quindi, nella quale le persone colpite hanno già avuto il tempo per generare e crescere, fino a renderla autonoma, la generazione successiva. Si tratta quindi di malattie che non rappresentano in alcun modo un rischio per la continuazione della specie (la generazione successiva è già, appunto, garantita): e questo probabilmente spiega perché la nostra specie sia relativamente poco dotata di meccanismi di protezione dalla loro comparsa. Molti dei fattori di rischio delle malattie cardiovascolari, tra l’altro, possono rappresentare addirittura “fattori di protezione” nei primi decenni della vita (specie se si pensa alle condizioni di vita dei nostri progenitori di qualche decina o centinaia di migliaia di anni addietro): è quindi comprensibile come tali condizioni siano state “protette” e non invece antagonizzate dai meccanismi dell’evoluzione descritta da Darwin. Una maggiore aggregazione piastrinica (che al giorno d’oggi rappresenta soprattutto un evidente fattore di rischio per la trombosi, e quindi per tutte le malattie cardiovascolari) rappresentava invece probabilmente in passato più un fattore di protezione dal rischio di emorragie gravi o
potenzialmente fatali; valori moderatamente elevati della pressione arteriosa (che oggi consideriamo un grave fattore di rischio cardiovascolare) potevano consentire, anche nelle giornate più calde e umide, una maggiore efficienza fisica e muscolare; la presenza di sovrappeso (e quindi di una certa quantità di grasso di deposito) poteva rappresentare un fattore di protezione durante periodi di carestia o durante gli inverni glaciali.
Queste condizioni, ora divenute “fattori di rischio” a causa del marcatissimo aumento della speranza di vita tipico delle società moderne, ma “fattori protettivi” in un passato non troppo lontano, e quindi evoluzionisticamente protette, rappresentano un tipico ambito di intervento del singolo soggetto, o della società, che deve farsi carico di una “zavorra genetica” che non svolge quindi più una funzione di supporto, ma piuttosto di danno potenziale, da sorvegliare e se necessario controllare per tutta la vita. Questi interventi potranno in molti casi limitarsi a correzioni dello stile di vita (e in particolare dell’alimentazione e dell’attività fisica), ma dovranno includere, in un numero crescente di casi, anche l’uso di integratori mirati e, ove opportuno, di farmaci specifici.3
Il ruolo causale delle lipoproteine LDL
La prevenzione delle malattie cardiovascolari, tipiche dell’età adulta o avanzata (la grande maggioranza degli eventi sia cardio- sia cerebrovascolari colpisce infatti, come si ricordava, oltre i 60 anni, e nella popolazione femminile in genere oltre i 70) pone quindi la specifica necessità di controllare, mediante interventi appropriati, i fattori di rischio nel corso dell’età adulta, per evitare la comparsa di eventi che, una volta manifestati, comportano spesso una riduzione significativa della qualità di vita del soggetto colpito e un aumento del carico di lavoro e dei costi per i suoi caregiver.
In questo contesto, le osservazioni epidemiologiche e i grandi studi di intervento hanno ben documentato l’importanza della frazione della colesterolemia legata alle lipoproteine a bassa densità (LDL) nel determinare il rischio di eventi coronarici come l’infarto, e l’efficacia della riduzione dei livelli plasmatici di tali lipoproteine nella riduzione del rischio stesso. Molte evidenze confermano il ruolo causale dei livelli di queste lipoproteine nell’aterosclerosi, e suggeriscono che ogni riduzione della colesterolemia legata alle LDL, con qualunque intervento ottenuta, induca nel tempo una riduzione proporzionale del rischio coronarico e, più in generale, cardiovascolare.4 Gli studi di randomizzazione mendeliana, condotti da numerosi gruppi di ricerca,5 hanno fornito un solido supporto concettuale a questo approccio, confermando che ogni variazione dei livelli plasmatici delle LDL geneticamente indotta (per la presenza di specifici polimorfismi, o SNP) si associa a una variazione nella stessa direzione del rischio coronarico, confermando così la natura causale della relazione tra colesterolo LDL ed eventi. Gli stessi studi hanno anche mostrato come una riduzione dei livelli delle LDL geneticamente indotta (e quindi in tutta evidenza operativa sin dalla nascita) causi una riduzione del rischio sensibilmente maggiore di quella ottenibile se la stessa variazione è stata invece indotta da un intervento dietetico o farmacologico attivato in età adulta o avanzata, confermando l’importanza della tempestività di questi interventi, e inducendo alcuni autori ad affiancare il concetto del “the sooner, the better” a quello, ben noto, del “the lower, the better”.6
Alcuni studi molto recenti suggerirebbero in realtà di spostare il focus degli interventi di natura
preventiva dai livelli del colesterolo legato alle LDL a quelli dell’apoB, la proteina contenuta, in una singola copia, in ogni lipoproteina LDL.7 Il rapporto tra colesterolo e apoB nelle LDL è tuttavia sostanzialmente stabile (e i due valori forniscono quindi, in prima approssimazione, la stessa informazione): ciò consente di continuare a utilizzare per ora (come indicato da tutte le linee guida più recenti) il colesterolo LDL come valore guida del rischio cardiovascolare.
Alla luce di questo solido complesso di evidenze è quindi ragionevole assumere (pur in assenza, per la maggior parte di questi prodotti, di studi di intervento controllati) che un uso protratto nel tempo dei numerosi integratori alimentari dotati di una documentata efficacia su tale parametro consentirà di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti che li assumono. Verranno discussi, al proposito, gli effetti dei fitosteroli, degli integratori a base di riso rosso fermentato, del beta-glucano e della berberina.
Gli steroli vegetali, o fitosteroli
Gli steroli vegetali, o fitosteroli, sono composti con una struttura molecolare molto simile a quella del colesterolo (da cui differiscono solamente per la conformazione della catena laterale), presenti in quantità variabili in tutti gli alimenti di origine vegetale.8 I fitosteroli competono con i meccanismi intestinali di assorbimento del colesterolo, sostituendosi “molecola per molecola” al colesterolo stesso nella formazione delle micelle miste che vengono poi internalizzate nella cellula intestinale attraverso una proteina di trasporto denominata NPC1L1.9 È noto che l’omeostasi del colesterolo nell’organismo (e quindi i suoi livelli plasmatici, che come si ricordava rappresentano uno dei principali fattori di rischio coronarico) sono controllati essenzialmente da due fenomeni: la sintesi epatica e l’assorbimento intestinale. Nonostante i meccanismi della sintesi siano in genere quantitativamente dominanti, l’inibizione dell’assorbimento comporta comunque un calo della colesterolemia, perché il minore afflusso di colesterolo al fegato, attraverso i chilomicroni veicolati dalla linfa, forza il fegato ad aumentare la sintesi endogena, ma anche l’espressione dei recettori per le LDL presenti sulla superficie degli epatociti, aumentando la captazione di queste lipoproteine e abbassandone quindi la concentrazione nel plasma.
I fitosteroli, dopo il loro ingresso nella cellula intestinale “a bordo” delle micelle miste, vengono in larga parte – a differenza del colesterolo, che viene avviato al fegato – riespulsi da trasportatori specifici nel lume intestinale, dove possono quindi competere nuovamente con l’assorbimento di altre molecole del colesterolo stesso. I fitosteroli non vengono quindi di fatto assorbiti, e i loro livelli nel sangue sono, di conseguenza, in genere bassi o molto bassi. Questi meccanismi sono dose-dipendenti: l’azione dei fitosteroli sull’assorbimento del colesterolo è infatti correlata alla quantità dei fitosteroli stessi presente nel lume intestinale. Tale correlazione, ormai ben definita sul piano quantitativo,10 prevede che, per ottenere un significativo effetto ipocolesterolemizzante, vengano assunte quantità di fitosteroli dell’ordine di almeno 1,5 g/die, che si sommano ai 300-400 mg/die assunti con gli alimenti vegetali; tale dose va ottimalmente assunta con uno dei pasti principali, perché la maggiore presenza di colesterolo di origine alimentare nell’intestino e la secrezione biliare contenente colesterolo indotta dal pasto ne massimizzano l’efficacia.11
Alle dosi ricordate (1,5-2,0 g/die) i fitosteroli riducono la colesterolemia LDL del 9-10% circa;12 tale riduzione, se protratta nel tempo, indurrà un’analoga riduzione della probabilità del soggetto
che li assume di incorrere in un evento cardiovascolare maggiore (infarto miocardico fatale o non fatale).
L’inserimento nella dieta di prodotti arricchiti in fitosteroli o integratori a base di queste molecole può quindi consentire di risolvere l’eccesso di rischio associato a modesti aumenti della colesterolemia LDL (fino al 10% oltre il proprio valore ottimale); è interessante sottolineare come alcuni studi suggeriscano inoltre che l’assorbimento del colesterolo possa rappresentare un processo potenzialmente più pericoloso della sua sintesi endogena,13 probabilmente per la possibilità che i meccanismi dell’assorbimento stesso possano veicolare all’interno della cellula intestinale, e successivamente al fegato, molecole potenzialmente tossiche come gli ossisteroli. Secondo questa visione, che gode di alcuni supporti sperimentali, l’inibizione dell’assorbimento del colesterolo potrebbe quindi comportare un vantaggio proporzionalmente maggiore rispetto a quello attribuibile alla sola riduzione della colesterolemia LDL che esso indurrebbe.
I fitosteroli possono anche efficacemente sinergizzare con le statine, i farmaci più impiegati nel controllo della colesterolemia. Essi possono infatti neutralizzare l’aumento dell’assorbimento del colesterolo indotto compensativamente dalle statine stesse; il calo della colesterolemia da loro indotto, inoltre, si somma a quello indotto dalle statine e corrisponde approssimativamente, sulla base della farmacologia di questi composti, a una quadruplicazione del dosaggio della statina impiegata. Tale associazione va comunque realizzata sotto il diretto controllo del medico. Secondo uno studio molto recente possono sinergizzare anche con il beta-glucano, che verrà analizzato più avanti.14
Riso rosso fermentato
Il riso rosso fermentato, ormai molto popolare nel nostro Paese, rappresenta il prodotto, purificato, di un fungo (Monascus purpureus) che fermentando il comune riso bollito produce una gamma di prodotti (alcuni di colore rosso brillante) tra cui una molecola ad attività inibitoria sulla sintesi epatica del colesterolo, la monacolina K.15 Chimicamente indistinguibile dalla lovastatina, la monacolina K è dotata della capacità di inibire l’enzima chiave nella sintesi del colesterolo, l’HMGCoA reduttasi. La molecola, peraltro, è caratterizzata da una biodisponibilità sensibilmente maggiore rispetto a quella del farmaco di sintesi: l’efficacia nella riduzione della colesterolemia LDL sembra infatti superiore rispetto a quanto si osserva per analoghi dosaggi del farmaco stesso.16
A dosi che apportano tra 3 e 10 mg/die di monacolina K, il riso rosso fermentato riduce la colesterolemia LDL del 15-25%; l’effetto sulla trigliceridemia è crescente al crescere dei livelli della trigliceridemia basale, mentre gli effetti sulla colesterolemia HDL sono di modesta ampiezza.17 È interessante osservare che un prodotto con le caratteristiche del riso rosso fermentato (xuezhikang) è stato esaminato, in Cina, in uno studio clinico randomizzato, condotto su una popolazione di circa 5000 soggetti, di cui circa 1400 di età adulta o avanzata (da 65 a 75 anni all’arruolamento), con un pregresso evento coronarico come l’infarto. Lo studio (China Coronary Secondary Prevention Study) ha valutato sia la capacità del prodotto di ridurre la colesterolemia totale e LDL, sia soprattutto la possibilità di ridurre, grazie al controllo del profilo lipidico, l’incidenza di recidive coronariche.18 Il riso rosso fermentato ha indotto in questo studio un’ampia riduzione della colesterolemia LDL, e questo si è tradotto, nei circa 4 anni di durata dello studio stesso, in una riduzione statisticamente significativa e clinicamente sensibile degli
eventi coronarici fatali e non fatali, degli ictus cerebrali e della mortalità per qualunque causa (-31%, -44% e -32%, rispettivamente).
L’elevata biodisponibilità del prodotto, e quindi la possibilità di ottenere un effetto farmacologico significativo con dosi più basse rispetto a quelle del farmaco corrispondente, può forse contribuire a spiegare il migliore profilo di sicurezza osservato in alcuni studi rispetto ad altre statine;19 questo buon profilo di sicurezza e tollerabilità si tradurrebbe anche in una maggiore adesione del paziente allo schema terapeutico prescritto, anche in pazienti con scarsa tolleranza o intolleranza nei confronti delle statine classiche.17
Il tema della sicurezza dei prodotti a base di riso rosso fermentato è stato oggetto, negli anni recenti, di numerose valutazioni. Come ci si poteva attendere, considerando che il principio attivo è a tutti gli effetti una statina, sono stati osservati alcuni casi di sintomatologia dolorosa muscolare, e pochissimi casi di rabdomiolisi, cioè di danno esteso del sistema muscolare, attribuibili all’uso del prodotto. In Italia, in particolare, è stato segnalato un solo caso di questa patologia, in una persona che aveva già subito la stessa complicanza durante il trattamento con un’altra statina.20 Altri tre casi sono stati segnalati dai sistemi di monitoraggio francese e degli Stati Uniti.21 L’incidenza assoluta di questi eventi è quindi molto bassa, anche alla luce del loro impiego invece molto ampio nella popolazione; la loro descrizione deve tuttavia indurre a considerare con attenzione le potenziali interazioni farmacologiche che ne sono alla base. La monacolina, infatti, interagisce con il citocromo P-450, e in particolare con l’isoenzima 3A4; la sua somministrazione in contemporanea con altri principi attivi metabolizzati dallo stesso isoenzima (va ricordato che anche alcuni componenti amari del succo di pompelmo vengono eliminati per la stessa via metabolica, e possono quindi indurre, se assunti in quantità significative, analoghe interazioni) può indurre accumulo della molecola nel plasma e quindi potenziali danni.
Recentemente l’EFSA ha valutato la sicurezza dei prodotti contenenti riso rosso fermentato, impiegati con integratori,21 e ha concluso riconoscendo l’impossibilità di identificare un dosaggio di questi prodotti che risultasse del tutto privo di effetti collaterali, specie nelle popolazioni ad alto rischio. In attesa di una valutazione definitiva della Comunità Europea sull’argomento, si può ricordare come l’incidenza di questi effetti collaterali sia comunque dose- dipendente, e come in particolare sia quasi trascurabile per i dosaggi di 3 mg/die (suggerimenti del Ministero della Salute).
Integratori a base di questo principio attivo sono facilmente acquistabili, oltre che nei canali tradizionali, anche sul web, ma è importante preferire quelli prodotti da aziende note e affidabili,6 anche per evitare contaminazioni (come quella da citrinina) diffuse nei prodotti di minore qualità.22 L’impiego clinico di questi prodotti nel controllo della colesterolemia è previsto dalle linee guida rilasciate congiuntamente dalla European Society of Cardiology (ESC) e dalla European Atherosclerosis Society (EAS) relative al controllo del profilo lipidico, pubblicate nel 2016 e in via di aggiornamento, probabilmente già nel corso di quest’anno.23
Beta-glucano
Efficace nel controllo della colesterolemia LDL è anche il beta-glucano, una fibra insolubile presente in piccole quantità nei cereali e in alcuni funghi, e in quantità maggiori nell’orzo e
nell’avena, attualmente disponibile come integratore o come ingrediente di alimenti fortificati. In numerosi studi controllati il beta-glucano ha documentato la propria capacità, per quantità di consumo dell’ordine di 3 g/die, di ridurre la colesterolemia LDL del 5-6%. Nonostante il meccanismo d’azione di questo composto non sia del tutto noto (anche se è probabile che i meccanismi in gioco siano essenzialmente legati a effetti sull’assorbimento o sull’escrezione fecale del colesterolo stesso, o degli altri grassi alimentari) la sua efficacia è ormai ben documentata24,25 e riconosciuta da EFSA con claim sia ex art. 13 sia ex art. 14: alcune recenti metanalisi (l’ultima pubblicata nel 2016),26 in particolare, hanno definito con grande accuratezza la portata dell’effetto sulla colesterolemia LDL, in assenza di effetti significativi sulle altre frazioni del profilo lipidico.
Recenti lavori sembrano suggerire che le frazioni più efficaci sul piano del controllo della colesterolemia LDL sono quelle a maggior peso molecolare.27 Il beta-glucano svolge altri effetti metabolici di tipo favorevole: sembra infatti in grado di influenzare positivamente la glicemia (probabilmente per un effetto di adsorbimento del glucosio liberato dagli enzimi digestivi, che ne rallenta l’assorbimento) e svolge probabilmente un effetto di tipo prebiotico (migliora cioè selettivamente la presenza di alcuni ceppi batterici dei microbiota intestinale).
Berberina
La berberina, estratta da alcune piante orientali in uso da secoli nella terapia tradizionale locale, è caratterizzata da una significativa capacità di ridurre il colesterolo legato alle lipoproteine LDL, ma anche da effetti favorevoli sui livelli dei trigliceridi nel sangue e sulla glicemia. È dotata di meccanismi d’azione multipli, tuttora in fase di studio. Il meccanismo d’azione principale della berberina sembra essere la sua capacità di ridurre i livelli plasmatici di una proteina, denominata PCSK9, che promuove, mediante un meccanismo complesso ma ormai ben caratterizzato, la degradazione dei recettori per le LDL. L’effetto finale della PCSK9 (che è il target di alcuni farmaci specifici, ad altissima efficacia ma dal costo per ora molto elevato) è quindi di ridurre la presenza dei recettori per le LDL sulla superficie degli epatociti (e quindi la capacità del fegato di “catturare” le LDL dal plasma); la riduzione dei suoi livelli plasmatici da parte della berberina svolge un chiaro effetto ipocolesterolemizzante (in media del 20-30% circa).28 Il meccanismo di controllo della glicemia da parte della berberina è pure complesso, e correla sia con la capacità di questa molecola di ridurre l’assorbimento intestinale di glucosio sia con l’effetto di aumento della captazione muscolare ed epatica del glucosio stesso.28
Nonostante l’elevata efficacia e i complessi meccanismi d’azione, la berberina sembra caratterizzata da un elevato profilo di tollerabilità, almeno fino a dosi di 500-1000 mg/die. Alcuni studi recenti suggeriscono che la quota non assorbita della berberina, che come si ricordava è molto elevata, raggiungendo il 97-98%, possa svolgere un significativo effetto di tipo prebiotico, facilitando la crescita dei ceppi specifici (come Akkermansia) che potrebbero contribuire all’effetto antiaterosclerotico osservato, in modelli sperimentali, dopo trattamento con la berberina stessa.29 Poiché Akkermansia, sempre in modelli sperimentali animali, sembra svolgere un diretto effetto antiaterosclerotico, è possibile che l’effetto prebiotico e l’effetto sul profilo lipidico di questo integratore possano in realtà sinergizzare.
Candidati all’impiego di integratori ipocolesterolemizzanti
I principi attivi disponibili sul mercato, quindi, consentono di agire sulla colesterolemia LDL con una vasta gamma di interventi, la cui efficacia ipocolesterolemizzante varia dal 5% al 30% circa. Alcune di queste molecole, inoltre, possono sinergizzare per la complementarietà dei rispettivi meccanismi d’azione, e rafforzare gli effetti di diete o farmaci ipocolesterolemizzanti.
Ci si può a questo punto chiedere quale sia l’utilizzabilità pratica di questi integratori per il controllo della colesterolemia nella popolazione nazionale italiana. Dati pubblicati dal nostro gruppo, elaborando le informazioni raccolte in un ampio studio epidemiologico osservazionale, lo studio CHECK, consentono di rispondere in maniera relativamente precisa a questa domanda.30 Applicando al campione CHECK (selezionato in maniera randomizzata, e quindi rappresentativo della popolazione italiana adulta di età tra 40 e 79 anni) le linee guida per il controllo della colesterolemia della Società Europea dell’Aterosclerosi, che prevede per soggetti con crescente rischio cardiovascolare il raggiungimento di livelli progressivamente più bassi della colesterolemia LDL (valori obiettivo), è infatti possibile calcolare quanti soggetti debbano ridurre la propria colesterolemia e quanti, in particolare, possano raggiungere il proprio valore obiettivo mediante interventi di tipo non farmacologico. Ne emerge che circa 5 milioni di soggetti distano dal proprio target tra il 5% e il 30%, e potrebbero pertanto, in linea teorica, raggiungere il proprio valore obiettivo utilizzando appropriatamente gli integratori ipocolesterolemizzanti disponibili sul mercato nazionale; tale numero non tiene poi conto del fatto che anche i soggetti già “a target” possono ridurre ulteriormente il loro rischio cardiovascolare, portando a valori ancora più bassi (secondo il concetto “the lower, the better”) la propria colesterolemia LDL.
Più in generale, un recente documento intersocietario di linee guida ha definito gli ambiti di impiego di questi prodotti in prevenzione cardiovascolare.6 I candidati identificati potrebbero essere i soggetti dei seguenti gruppi:
- soggetti di età fino a 40 anni senza specifica indicazione clinica all’uso di un farmaco ipocolesterolemizzante (perché portatori, ad esempio, di una dislipidemia su base genetica, malattie cardiovascolari manifeste, diabete), nei quali il medico ravveda l’opportunità, per motivi clinici, di ridurre la colesterolemia e quindi il rischio cardiovascolare globale;
- soggetti di età oltre i 40 anni con rischio SCORE ≤1% a 10 anni (e quindi senza indicazione clinica all’uso di un farmaco ipocolesterolemizzante) nei quali il medico ravveda l’opportunità, per motivi clinici, di ridurre la colesterolemia e quindi il rischio cardiovascolare globale;
- soggetti con esigenza di un trattamento farmacologico ipocolesterolemizzante che non intendano, per scelta personale, assumere farmaci etici;
- soggetti in trattamento con statine con risposta insufficiente o soggetti che non tollerano una statina: in questi pazienti andrebbe chiaramente considerata l’aggiunta alla terapia di un integratore senza
Naturalmente l’identificazione ottimale dei candidati all’uso degli integratori ipocolesterolemizzanti è un problema specifico di carattere clinico, ed è indubbio che il medico debba giocare, al proposito, un ruolo centrale.
Acidi grassi polinsaturi omega-3 e antiossidanti
Un meccanismo d’azione completamente differente, e in larga parte svincolato da effetti sul profilo lipidico, è invece appannaggio dei grassi polinsaturi della famiglia degli omega-3. Questi acidi grassi a lunga catena, a elevato tasso di insaturazione, sono naturalmente presenti in molti alimenti di origine vegetale, in genere in piccola quantità, sotto forma del capostipite a 18 atomi di carbonio, l’acido alfa-linolenico, o ALA; nel pesce e negli animali marini si trovano invece, in quantità talora più abbondanti, le due molecole a più lunga catena (acido eicosapentaenoico, o EPA, e acido docosaesaenoico, o DHA, a 20 e 22 atomi di carbonio, rispettivamente). La conversione in vivo dell’ALA a EPA è efficiente, mentre quella dell’EPA e DHA lo è molto meno, rendendo opportuna, ove possibile, l’assunzione diretta di questo acido grasso con alimenti o integratori.
Gli omega-3, nel loro complesso, svolgono azioni varie e integrate, essenziali sia per il normale sviluppo di organi e tessuti (specie la retina, il cervello, il cuore) sia per una loro corretta funzionalità. Sono anche efficaci nella prevenzione cardiovascolare e di alcune condizioni patologiche molto diffuse, a dosaggi e con tempi di latenza differenti.31,32
A dosaggi adeguati, gli omega-3 (soprattutto quelli a lunga catena) svolgono un’azione di tipo antinfiammatorio (in parte per l’azione di sostituzione dell’acido arachidonico, e degli eicosanoidi che ne derivano – come i leucotrieni e i trombossani da parte dell’EPA), ma anche per la capacità di dare origine a molecole più complesse, sintetizzate a partire dal DHA, dotate della specifica capacità di modulare i fenomeni infiammatori (le resolvine). Hanno anche capacità di tipo antiaggregante (comportandosi quindi come una sorta di “aspirina alimentare”) pure dovute all’azione di competizione dell’EPA rispetto all’acido arachidonico, e, ad alti dosaggi (oltre i 3 g/die), di riduzione della trigliceridemia.
L’effetto ipotrigliceridemizzante degli omega-3, in recenti studi di intervento controllati, si è confermato altamente rilevante sul piano clinico: nello studio REDUCE-IT, per esempio, condotto su pazienti portatori di malattia cardiovascolare o di diabete assieme ad altri fattori di rischio, già in trattamento con una statina, il gruppo trattato con EPA ad alto dosaggio ha beneficiato, durante i 4,9 anni dello studio, di una riduzione degli eventi cardiovascolari del 25% rispetto al gruppo di controllo trattato con la sola statina.33
Ma al di là di questi impieghi in ambito farmacologico (che rappresentano peraltro conferme di efficacia), l’uso di integratori a base di omega-3 ha un significato preciso nei soggetti nei quali, per i motivi più vari, l’apporto alimentare di questi acidi grassi sia inadeguato, e non possa essere corretto. È importante sottolineare, al proposito, la rilevanza di questi fenomeni nella persona anziana, che spesso, per i motivi più vari, fatica ad assumere le quantità necessarie di pesce (e specificamente di pesce grasso).
Aree di maggiore complessità, sul piano scientifico e formale, sono quelle legate al controllo dello stress ossidativo. Nonostante lo stress ossidativo (essenzialmente il danno causato dai radicali liberi a molecole complesse come le proteine, i grassi polinsaturi, gli acidi nucleici, e cioè DNA e RNA) sia certamente coinvolto nella genesi delle malattie degenerative, l’impiego di molecole ad azione antiossidante nel controllo e nella prevenzione del danno ossidativo stesso ha sortito risultati di non agevole interpretazione. Alcuni studi con antiossidanti purificati (essenzialmente beta-carotene e vitamina E) hanno avuto una conclusione non favorevole o senza evidenze di effetto protettivo;34 è tuttavia probabile che le molecole ad azione
antiossidante debbano lavorare “in concerto” tra di loro, e che quindi complessi costituiti o contenenti vari principi ad azione antiossidante possano svolgere in maniera più efficace la loro azione protettiva.
Sarebbe tuttavia concettualmente pericoloso abbandonare la ricerca nel settore, che necessita solamente di una migliore comprensione di questi fenomeni e della possibilità di controllarli mediante interventi mirati. Si vanno infatti accumulando informazioni che potranno, in tempi brevi, portare ad affiancare ai prodotti già sul mercato altre molecole, o combinazioni di molecole, in grado di modulare in modo adeguato questi fenomeni, ai quali correlano, per esempio, molte delle risposte infiammatorie coinvolte nello sviluppo delle malattie degenerative. Una metanalisi recente ha per esempio rivalutato il valore del cosiddetto potere antiossidante totale, che correlerebbe in modo inverso, e quindi protettivo, con il rischio cardiovascolare e con la mortalità per tutte le cause.35
Conclusioni
L’ambito della prevenzione cardiovascolare si caratterizza quindi per la necessità di controllare fattori di rischio specifici, per tutta la durata della vita umana, alla cui presenza si associa un aumento del rischio di eventi clinici come l’infarto miocardico o l’ictus cerebrale. La gestione del profilo lipidico, probabilmente il principale fattore di rischio per le malattie coronariche, può contare su un’articolata serie di efficaci principi attivi, in grado di controllare le alterazioni della colesterolemia in un’ampia gamma di valori. Gli omega-3 arricchiscono il bagaglio degli integratori ad azione protettiva sull’apparato cardiovascolare con effetti più complessi, e solo in parte compresi. Il controllo dei fenomeni ossidativi, tuttora in fase di studio, intervenendo su fenomeni di grande rilevanza teorica potenzierà le capacità preventive nei riguardi di queste diffuse patologie.
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