È’ sufficiente alimentarsi in modo equilibrato e variato, privilegiando gli alimenti cosiddetti “naturali”, nell’ambito di uno stile di vita corretto, per ottimizzare la nostra salute e mantenerla buona nel tempo? La natura, in altre parole, ci fornisce, con gli alimenti che ci mette a disposizione, tutto il necessario per godere di una vita lunga e sana? È’ lecito dubitarne, anche se questa convinzione sembra essere ormai molto diffusa nella nostra società. Una lettura in chiave evoluzionistica della nostra fisiologia tende in realtà a fugare quasi tutti i dubbi al proposito. Iniziamo da un dato ormai consolidato: la durata media della vita si è allungata in modo continuo, negli ultimi 100 anni, sia nei Paesi industrializzati e sia nelle regioni meno sviluppate del mondo [1], con una velocità che non ha precedenti nella storia della specie umana. Dopo essere rimasta per decine o centinaia di migliaia di anni attorno ai 20-30 anni, la speranza di vita alla nascita ha raggiunto in Europa i 50 anni all’inizio del 1900, mentre oggi si colloca, in media, oltre gli 80 anni e per le donne sfiora ormai gli 85 [2]. La contropartita di questo imponente aumento, che secondo le rilevazioni più recenti sta tuttora continuando [3], è l’aumento dell’incidenza delle malattie degenerative come i tumori, le malattie cardiovascolari, le demenze, che ormai rappresentano i principali problemi sanitari nelle società evolute.
Evoluzione darwiniana e fattori di rischio delle malattie degenerative
Ci si può forse chiedere come mai i meccanismi dell’evoluzione darwiniana non abbiano sviluppato, nel tempo, efficienti meccanismi di protezione nei confronti di queste patologie e come mai, in particolare, i fattori di rischio che ne facilitano la comparsa (e che sono ben noti, per esempio, nel caso delle malattie cardiovascolari, ma che iniziano ad essere conosciuti anche per quanto riguarda alcuni tumori) non siano adeguatamente controllati nel nostro organismo. I livelli plasmatici della colesterolemia LDL, per esempio, sono in media attorno ai 130-140 mg/dL nella popolazione italiana [4], ma a tali valori si associa un rischio cardiovascolare nettamente più elevato di quello che si osserva tra coloro i cui livelli del colesterolo LDL si collocano attorno ai 70 mg/dL [5].
Analogamente, i valori pressori più diffusi nelle popolazioni industrializzate, specie se di età adulta o avanzata, superano nettamente i valori considerati ottimali (tanto che oltre un terzo della popolazione, nel nostro Paese, va considerato iperteso) [6]; lo stesso può dirsi per l’indice di massa corporea, o BMI, ormai collocato in media attorno al valore 26, e quindi nel range che caratterizza il sovrappeso [7]. Come mai, ci si potrebbe chiedere, il colesterolo sierico, il peso, la pressione arteriosa della popolazione si sono spostati verso valori in media elevati? La risposta è apparentemente facile: perché ci alimentiamo in maniera eccessiva, consumando troppe calorie, e in particolare troppi grassi di origine animale e troppo sale.
Ma questa risposta in realtà non fa che spostare il problema, e la domanda diventa: perché ci alimentiamo in maniera eccessiva, consumando in particolare troppi grassi di origine animale e troppo sale? Una prima osservazione pertinente al proposito è che questi fattori di rischio (ipercolesterolemia, ipertensione, sovrappeso), così diffusi nella popolazione moderna, aumentano le probabilità di comparsa di patologie (soprattutto l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale, ma anche – per quanto concerne il sovrappeso – alcuni tumori) che colpiscono mediamente oltre o ben oltre i cinquant’anni di età. Un’età che ormai larghissima parte della popolazione moderna raggiunge, ma che, nell’ottica della continuazione della specie (ragionevolmente l’unico obiettivo dei meccanismi dell’evoluzione, inizialmente descritti da Darwin), è probabilmente del tutto ridondante.
Anche in una specie caratterizzata da lento accrescimento e lenta maturazione dei piccoli, come la nostra, gli individui sono, infatti, già pronti per la riproduzione nella seconda decade di vita, e gli adulti oltre i quaranta-cinquant’anni, che hanno già generato e cresciuto fino a renderla autonoma la generazione successiva, hanno di fatto esaurito il loro ruolo biologico nel mantenimento della specie stessa. La più ragionevole spiegazione dell’assenza di adeguati ed efficaci meccanismi di controllo dei livelli di alcuni fattori di rischio delle principali malattie cardiovascolari, pertanto, ha a che fare con il principio di economia: le patologie che derivano dal loro insufficiente controllo colpiscono gli individui in una fase della loro vita che non è più rilevante dal punto di vista della continuazione della specie, e ciò rende irrilevante ottimizzarne il controllo; con la conseguenza che tale controllo ottimale (inutile, e quindi “costoso” in termini evoluzionistici) non è stato perseguito dai meccanismi evolutivi che hanno modellato, nel tempo, il patrimonio genetico della nostra specie, e quindi, semplicemente, non si è sviluppato.
Fattori di rischio o fattori di protezione?
L’interrelazione tra il nostro patrimonio genetico e la lunga vita moderna, tuttavia, è in realtà, probabilmente ancora più complessa. Se le si guarda in un’ottica di mantenimento della specie, infatti, alcune delle condizioni che oggi definiamo “fattori di rischio cardiovascolare” risultano aver rappresentato in realtà, nelle prime decadi della vita dei nostri lontani progenitori, fattori ad azione protettiva, in grado di migliorare la loro probabilità di sopravvivenza. È’ comprensibile, quindi, che questi fattori siano stati “protetti” dall’evoluzione. È’ intuitivo, per esempio, che un aumento del peso corporeo (e quindi del tessuto adiposo dell’organismo) potesse rappresentare un meccanismo di protezione per l’uomo preistorico, qualche decina o centinaia di migliaia di anni addietro; questi individui si confrontavano spesso, durante la loro breve e tumultuosa vita, con carestie o lunghi periodi invernali (o addirittura glaciali) durante i quali il reperimento di cibo era certamente difficoltoso, ed una certa quota di grasso di riserva era quindi potenzialmente preziosa.
Oggi è inoltre ben noto che un’adeguata quantità di grasso corporeo è necessaria anche per la fertilità femminile (ben nota è l’amenorrea che si associa ad una eccessiva riduzione del grasso corporeo stesso): una funzione evidentemente essenziale per la continuazione della specie, e quindi fortemente protetta dai meccanismi evolutivi. Ancora, un bambino con qualche riserva calorica aggiuntiva poteva avere maggiori probabilità di sopravvivenza nel mondo preistorico (in realtà, fino forse a non più di 100 anni addietro, in alcune povere zone rurali dei nostri Paesi): non è quindi sorprendente che le madri tendano, probabilmente per una forte pressione comportamentale di tipo istintuale, ad “iperalimentare” i propri figli quando la disponibilità di cibo lo consente, con la conseguenza, nell’opulento mondo moderno, di facilitare la comparsa del sovrappeso e dell’obesità infantile. In questo contesto, è quindi ben comprensibile come si siano sviluppati nel tempo meccanismi di controllo della ricerca del cibo, dell’alimentazione e della sazietà orientati a facilitare il risparmio calorico e a consentire quindi (e probabilmente a facilitare) lo sviluppo di sovrappeso, in presenza di adeguate quantità di cibo, sia negli adulti e sia nei bambini (il cosiddetto “genotipo risparmioso”) [8], con l’obiettivo di permettere la deposizione di tessuto adiposo di riserva che potesse svolgere il duplice ruolo di protezione nei riguardi delle carestie e nei riguardi della possibile infertilità e facilitare pertanto il ruolo del singolo individuo nella continuazione della specie. Il limite di opportunità nella deposizione di grasso corporeo, e quindi nell’incremento ponderale, era, evidentemente, solo la comparsa di un’obesità così grave da rendere difficoltoso lo spostamento dell’individuo, che aumentava la probabilità che lo stesso cadesse vittima di animali feroci (o di attacchi dei suoi simili). Ma i meccanismi comportamentali che facilitano un elevato apporto di cibo, e che sono poi associati a un assetto metabolico orientato alla tesaurizzazione delle calorie sotto forma di grasso corporeo, continuano a funzionare anche nel mondo moderno, nel quale la maggior parte delle persone gode di un accesso al cibo di fatto illimitato, con il risultato che questo eccesso di calorie disponibili tende a trasformarsi in accumulo di grasso corporeo, spiegando probabilmente, in buona parte, la crescente diffusione di sovrappeso e di obesità nelle società evolute.
Ed è d’altra parte intuitivo, seguendo il ragionamento già fatto, che l’aumentato rischio di malattie diabetica e di malattie cardiovascolari che si associa al sovrappeso o all’obesità, e che colpiscono le persone nella seconda parte della loro vita (dopo i cinquant’anni, in media), non abbia rappresentato un deterrente significativo in un’ottica evoluzionistica e non abbia quindi promosso la comparsa di efficaci meccanismi di controllo di questi fenomeni. Del tutto analogamente, un efficiente meccanismo di aggregazione piastrinica, certamente protettivo durante l’esistenza dei nostri progenitori, che vivevano in un mondo ostile ed erano probabilmente esposti ad un alto rischio di emorragie anche gravi, era auspicabile; ma nel mondo moderno l’aggregazione delle piastrine rappresenta uno dei meccanismi più rilevanti della formazione del trombo, da cui può derivare un evento vascolare ischemico, tanto che una quota significativa della popolazione inibisce, mediante farmaci adeguati (aspirina) o alimenti specifici (come il pesce ricco di acidi grassi omega 3 a lunga catena) questi meccanismi biochimici, per ridurre il rischio cardiovascolare. Meccanismi simili sono probabilmente operativi per la ritenzione del sodio nell’organismo, che aveva un significato protettivo nelle aree a bassa disponibilità sodica, come l’area centrafricana in cui si è sviluppata la nostra specie, ma che nel mondo moderno, nel quale la disponibilità di sale è invece virtualmente illimitata, svolge un ruolo rilevante nello sviluppo dell’ipertensione; l’evoluzione può inoltre aver “scelto” di privilegiare valori pressori lievemente più elevati di quelli ottimali anche per ridurre il rischio di episodi ipotensivi acuti, che nell’ostile mondo in cui i nostri progenitori vivevano potevano comportare facilmente la morte. Anche elevati livelli delle lipoproteine LDL possono svolgere un effetto protettivo contro il rischio (del tutto teorico, nella società moderna) di una carenza di colesterolo, essenziale nello sviluppo delle membrane cellulari e in particolare delle guaine mieliniche che proteggono gli assoni neuronali nel nostro cervello e nel sistema nervoso periferico. Questo può forse spiegare perché l’organismo si sia dotato addirittura di un triplice meccanismo biochimico per permettere un’elevata disponibilità epatica di colesterolo praticamente in qualunque condizione metabolica (l’assorbimento intestinale, la sintesi epatica e la captazione epatica per via recettoriale delle LDL); ciascuna di queste vie tende infatti immediatamente a compensare interventi che modifichino l’efficienza delle altre due, in un’evidente ricerca di mantenimento di un’omeostasi considerata essenziale. Una lista (certamente incompleta) dei fattori che possono svolgere un ruolo protettivo nella prima fase della vita, ed un ruolo al contrario negativo nella seconda, è presentata nella Tabella 1.
I meccanismi evolutivi privilegeranno tuttavia gli effetti favorevoli a breve, tutelando quindi la persistenza dei fenomeni biologici che li generano indipendentemente dai loro possibili effetti negativi a lungo termine. Nel mondo moderno, e nel contesto della nostra lunga durata di vita, fattori una volta caratterizzati da un evidente significato protettivo rappresentano quindi in realtà fattori di rischio per future patologie e il loro controllo mediante interventi di stile di vita, di natura alimentare o farmacologica, diviene pertanto essenziale per continuare il trend di allungamento della durata della vita stessa e di miglioramento della sua qualità, che è in essere ormai da molti decenni. Ma va tenuto presente che tale controllo, che interferisce con processi biologici o comportamentali molto consolidati, è complesso, e spesso può interferire con scelte che l’evoluzione ha rafforzato mediante il meccanismo del “piacere”. Mangiare è per esempio fonte di piacere, e per molte persone il controllo del piacere derivante dall’apporto di cibo non è di fatto gestibile, comportando, in presenza di una disponibilità alimentare illimitata, un eccesso calorico che si trasformerà, più o meno inevitabilmente, in sovrappeso o obesità.
Tabella 1 Fenomeni biologici che possono svolgere un effetto protettivo nella prima fase della vita (fino a 40-50 anni), facilitando la sopravvivenza o specifiche funzioni dell’organismo, ed effetti invece sfavorevoli oltre tale età.
Meccanismi biologici |
Effetti a breve |
Effetti tardivi |
|
Aggregazione piastrinica |
Riduzione del rischio emorragie |
Trombosi (infarto, ictus) |
|
Ritenzione sodica |
Vantaggi nelle aree dove il sodio è scarso |
Ipertensione |
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Ipercolesterolemia |
Mantenimento della disponibilità di colesterolo |
Aterosclerosi e infarto |
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Iperalimentazione dei bambini |
Protezione dalle carestie |
Obesità infantile e adulta |
|
Obesità |
Protezione dalle carestie e dall’infertilità |
Diabete e aterosclerosi |
|
Infiammazione |
Controllo delle infezioni |
Malattie autoimmuni, aterosclerosi, |
demenze |
Possibili strategie: il ruolo degli integratori
È quindi necessario, per controllare questi fattori protettivi ormai divenuti “di rischio”, adottare un approccio pragmatico e disincantato, che talvolta punti deliberatamente ad “ingannare”, o almeno ad ignorare, i processi sviluppati e tutelati dall’evoluzione. La scelta di alimenti a elevato potere saziante, che “ingannino” i meccanismi che controllano l’appetito e l’apporto di cibo, attenuando la pressione a consumare alimenti e calorie, può rappresentare per esempio una delle strategie utili per facilitare il controllo del sovrappeso in una società ad ampia disponibilità di cibo come la nostra. In un simile contesto, l’uso di integratori specifici può svolgere un ruolo di grande importanza, specie nella prevenzione delle malattie degenerative tipiche dell’età avanzata. È’ infatti plausibile (e quindi probabile) che almeno alcune delle vie metaboliche che controllano fattori di rischio delle malattie cardiovascolari (o di altre malattie degenerative) possano non essersi ottimamente “calibrate” sull’apporto alimentare di specifici cofattori enzimatici, per l’irrilevanza evoluzionistica di tale ottimizzazione. Si consideri per esempio il caso dei folati.
Gli enzimi che controllano la sintesi dell’eme hanno probabilmente subito una precisa pressione evoluzionistica per modellarsi sull’apporto di folati tipico dell’alimentazione umana: in assenza di tale pressione, infatti, la sintesi di emoglobina sarebbe risultata insufficiente, con un immediato danno per l’organismo. Del tutto diverso è invece il problema ove si consideri l’apporto di folati necessario per ottimizzare le vie enzimatiche che riducono i livelli ematici dell’omocisteina. Un aumento dei livelli di tale sostanza si associa infatti ad un aumento del rischio di eventi cardio-cerebrovascolari, ma l’inesistenza di una significativa pressione evolutiva orientata a controllarne i livelli (attribuibile alla tardiva comparsa delle complicanze di tale aumentato livello) fa sì che una ottimale funzione di questi enzimi si ottenga solo se l’apporto di folati alimentari è significativamente integrato [9]. Analogamente, l’integrazione con folati riduce la comparsa di labbro leporino e di difetti congeniti del tubo neurale: patologie evidentemente non sufficientemente rilevanti, per la loro bassa frequenza, in un’ottica di protezione della specie, per giustificare modificazioni adattatorie del corredo enzimatico coinvolto.
Analoghe considerazioni possono essere fatte a proposito dell’apporto di antiossidanti con gli alimenti (in genere insufficiente per controllare lo stress ossidativo associato a condizioni frequenti, come il fumo di sigaretta, e che pure facilita la comparsa di patologie caratterizzate da una tardiva insorgenza, non rilevanti da un punto di vista di protezione della continuazione della specie) e, in un’ottica più ampia, anche a proposito dell’apporto di fitosteroli con gli alimenti (pari in media a 300-400 mg/die, e non sufficienti quindi per svolgere un’adeguata azione ipocolesterolemizzante) [10]. Ma si può anche immaginare che la ricerca di alimenti naturalmente ricchi di polifenoli (o la loro assunzione come integratori) possa modulare il metabolismo dei carboidrati, inibendo le attività amilasiche e rallentando così il rilascio del glucosio dai carboidrati complessi assunti con l’alimentazione, riducendo la comparsa dei picchi glicemici ed insulinemici che attivano i fenomeni del metabolismo ossidativo e si traducono poi in un incremento dei fenomeni infiammatori [11].
E’ che l’integrazione con fibre alimentari specifiche possa svolgere un effetto prebiotico selettivo, favorendo la crescita di ceppi del microbiota con effetti metabolici protettivi o favorevoli [12]. Da questo scenario emerge quindi un quadro complesso, e di non semplice gestione. Le malattie degenerative tipiche della nostra società sono probabilmente figlie di un’inappropriatezza genetica a gestire la nostra prolungata durata di vita, del maggior tempo a disposizione dei fattori di rischio per facilitarne la comparsa, della presenza di una “zavorra evoluzionistica” ormai inutile e spesso sfavorevole ma fortemente radicata nel nostro patrimonio genetico.
La conoscenza di questa situazione, e degli interventi che possono aiutare a controllarla, è sempre più necessaria e va diffusa alle fasce meno favorite della popolazione, che meno hanno finora incorporato tali interventi nella loro vita. Un’integrazione alimentare mirata, basata su solide evidenze scientifiche, e in particolare costruita sulla base di informazioni di carattere biochimico ed epidemiologico convincenti, può svolgere al proposito un ruolo di notevole interesse. È’ naturalmente necessario che gli integratori in questione siano caratterizzati da un solido background fisiopatologico, da adeguate evidenze di efficacia e sicurezza e da formulazioni farmaceutiche (nonostante non siano evidentemente farmaci) appropriate (per esempio in termini di biodisponibilità). È’ anche importante che il loro uso sia promosso da una comunicazione pubblicitaria equilibrata, che non ne orienti l’uso in combinazione con pattern dietetici deliberatamente incompleti o squilibrati, o in sostituzione di trattamenti farmacologici di accertata efficacia ma a completamento di questi interventi fondamentali nella ricerca del benessere
Bibliografia
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