Il morbo di Parkinson è caratterizzato da alcuni aspetti che possono essere modificati da oculate scelte nutrizionali. Di particolare importanza l’infiammazione cronica, in particolare a livello cerebrale, che funge da co-attivazione e mantenimento della neurodegenerazione. Le sostanze più utili per la prevenzione e il rallentamento della malattia, sono il caffè, il tè (Egcg), i bioflavonoidi (catechine, antocianine, quercetina, acido caffeico…), la vitamina D.
Antagonismo per il sottotipo recettoriale adenosinico A2A
Il caffè, con i suoi principi attivi, in particolare la caffeina, risulta probabilmente la più importante componente alimentare in grado di prevenire, ma anche rallentare, il Parkinson. Il meccanismo d’azione più plausibile è l’antagonismo per il sottotipo recettoriale adenosinico A2A, espresso prevalentemente nei neuroni del corpo striatopallido. Tale antagonismo è in grado di ridurre la neurotossicità dopaminergica. Altre sostanze, come la paraxantina, il più importante metabolita del caffè, ha simile attività neuroprotettrice attraverso meccanismi non dipendenti dai recettori adenosinici ma attraverso l’inbizione di Parp-1 (Poly(Adp-ribose) polymerase-1). L’azione combinata dei principi attivi presenti nel caffè si traduce anche con una riduzione della neuroinfiammazione, altra caratteristica del PD. Su modelli animali, è stato riscontrato come l’impiego del caffè, a dosi comparabili con quelle consumate dagli uomini sia in grado di ridurre il danno neurologico anche a patologia conclamata, aumentando così le già interessanti sue caratteristiche protettive. Importanti studi epidemiologici mostrano come il consumo abituale, anche non elevato, di caffè (ma non il decaffeinato), sia in grado di ridurre, in maniera statisticamente significativa, il rischio di sviluppare il Parkinson.
La terapia ormonale sostitutiva annulla l’azione del caffè
Uno studio su un ampio campione di popolazione americana (più di centomila soggetti), seguiti per un periodo di 10 anni, ha evidenziato come il consumo abituale di caffè, da una a tre tazzine al giorno, consenta una riduzione del rischio di malattia fino al 40% circa (95% CI: 0,40-0,95). Nello studio sono state valutate anche tutte le altre possibili fonti di caffè, dalle bevande energetiche al cioccolato. Una differenza importante è stata riscontrata nelle donne non ancora in menopausa o sottoposte a Tos (terapia ormonale sostitutiva). In questo caso, gli estrogeni mostrano un’azione diretta sul sistema dopaminergico nigro-striato, annullando l’effetto del caffè. Se le donne sono in menopausa, non seguono terapie ormonali e consumano regolarmente caffè, acquisiscono praticamente la stessa protezione che si presenta negli uomini: RR 0,47 (95% CI: 0,27-0,80).
Problemi di standardizzazione nelle indagini
Le differenze esistenti tra i vari studi sono legate principalmente alla difficoltà di standardizzare le quantità assunte di caffeina, stante le diverse quantità di caffè usate, i metodi estrattivi, le miscele impiegate, la diluizione o meno del caffè, il volume della tazzina eccetera. Restano comunque valide le conclusioni, che mostrano come il caffè rappresenti la più valida protezione, non solo in prevenzione, del Parkinson.
I meccanismi d’azione della quercetina
Tra le altre sostanze sopra citate, quasi tutte con effetto neuroprotettivo grazie all’azione antiossidante, vale la pena citare la quercetina. Presente in molti verdure, riesce a passare la barriera emato-encefalica, seppur in quantità ridotte, dove sarebbe in grado di attivare la via di segnalazione Nrf2-Are (antioxidant response element), e quindi aumentare la difesa dagli stress ossidativi. La quercetina agisce anche su un’altra via di segnalazione, aumentando quella delle parossonasi (Pons-2), presente nei tessuti cerebrali; come enzima, legandosi al CoQ10, Pon-2 riduce i livelli di Ros (in particolare del perossido di idrogeno) a livello mitocondriale e citoplasmatico.
Pesticidi e Parkinson
Ormai sono diversi gli studi e le review che mostrano come i lavoratori agricoli, esposti per lungo tempo a vari pesticidi abbiano un aumentato rischio di sviluppare il Parkinson. Tra i composti considerati più dannosi, rientrano gli insetticidi (organofosfati o clorati, come il rotenone), seguiti da fungicidi (come maneb e ziram) ed erbicidi (come il paraquat). Questi composti hanno meccanismi d’azione differenti: il paraquat aumenta notevolmente la produzione di Ros nel cervello, il rotenone interferisce con il complesso l nella catena respiratoria mitocondriale, mentre maneb e ziram avrebbero azione neurotossica diretta sui neuroni dopaminergici. L’effetto finale è però identico, aumentano cioè il rischio di Parkinson, con valori che arrivano, secondo diversi autori, fino a 3 volte rispetto a soggetti non esposti a tali fitofarmaci (Elbaz A. et al. 2009, Freire C. et al. 2012, Qi Z. et al. 2014). Va inoltre considerata l’esposizione complessiva e sommatoria dei vari pesticidi, esposizione che può verificarsi anche non in contemporanea, ma con successiva esposizione a uno di questi composti, con un effetto sinergico che potrebbe rendere ancora più a rischio la salute dei lavoratori agricoli.
L’aiuto dai fitoterapici
Diverse le piante che si stanno dimostrando efficaci nel ridurre i sintomi del Parkinson. Tra queste citiamo la scutellaria (Scutellaria baicalensis), la mucuna (Mucuna pruriens) e la bacopa (Bacopa monnieri). La radice di scutellaria è ricca di flavonoidi, tra cui spicca la baicaleina, un flavone dalla spiccata azione antiossidante, in grado di ridurre i livelli di malondialdeide in modelli animali [Li XL. et al. 2016]. Anche la wogonina, un altro flavone presente nella scutellaria ha mostrato favorevoli azioni sulla rigenerazione dei tessuti cerebrali.
La mucuna, legume rampicante della famiglia delle Fabacee, è forse la migliore fonte naturale di L-dopa, il gold standard nel trattamento del Parkinson. Le quantità contenute nei semi della mucuna (5% in media) e la buona biodisponibilità consentono di ottenere dosaggi terapeutici comparabili con quelli farmacologici (l’efficacia è circa 3 volte inferiore, quindi ne occorrono dosi almeno 3 volte superiori) [Cassano E. et al. 2016]. L’assenza di effetti collaterali è un altro aspetto positivo riscontrato nei pochi studi clinici eseguiti su malati di Parkinson.