In termini generali i nutraceutici possono essere ricondotti a tre diverse tipologie di prodotto: i nutraceutici fitoterapici, i nutraceutici biomolecolari e i nutraceutici probiotici. Nella prima categoria ritroviamo i derivati erbali, nella seconda le vitamine, gli oligoelementi e gli aminoacidi, nella terza i ceppi batterici e, ovviamente, le fibre prebiotiche. I probiotici, per funzionare, non necessitano certamente di “assorbimento”. Devono invece essere sicuramente vivi, vitali e colonizzanti. Potremmo interrogarci, allo stesso modo, su quali siano i parametri rilevanti peri nutraceutici del primo e del secondo gruppo, rispettivamente fitoterapici e molecole endogene. Gli aspetti di biodisponibilità orale, in questo senso, occuperebbero sicuramente parte della risposta. Pur non essendo un parametro di interesse regolatorio, almeno non quanto un dosaggio, una posologia o la possibilità di una rivendicazione di un’indicazione di salute (health claim), la biodisponibilità orale di un nutraceutico è invece un parametro fondamentale per la comprensione di un nutraceutico. È possibile influenzare positivamente tale parametro ricorrendo a particolari scelte formulative di bioenhancing (aggiunta di vettori lipidici, uso di antagonisti di citocromi e di proteine ABC) e/o a particolari approcci galenici (ricorso ad eccipienti che garantiscano specifici rilasci tempo- e pH-dipendenti) che si sono dimostrati funzionali in questo senso. Prima però di addentrarci nel dettaglio di questi temi (biodisponibilità, bioenhancing e tecniche galeniche) è opportuno definire cosa si intenda per biodisponibilità orale e in che misura questa possa valere.
La scarsa biodisponibilità orale dei fitoterapici
Si è soliti definire la biodisponibilità orale di una sostanza come quella percentuale di composto in grado, dopo somministrazione orale, di raggiungere la circolazione plasmatica, paragonando tale valore a quello ottenuto da un’equiponderale somministrazione endovenosa. Fatta quindi 100 la quota di composto rilevabile nel plasma dopo iniezione endovenosa, la biodisponibilità orale corrisponde alla percentuale ottenuta somministrando lo stesso composto per bocca. Se da un lato potremmo considerare accettabili valori farmacocinetici della maggior parte delle biomolecole endogene (anche se con le debite eccezioni; vedi ad esempio i sali di ferro e calcio, le vitamine come la cobalamina, alcuni folati, il coenzima Q10 noti per avere un profilo cinetico piuttosto modesto), un parametro che accomuna gran parte, se non tutti, i principi attivi di origine fitoterapica è la loro sicuramente scarsa, talvolta nulla, biodisponibilità orale. Si noti, anche se non dovrebbe essere necessario, che, fatta eccezione per quei composti che per esercitare la loro azione non necessitano di essere assorbiti, come ad esempio le fibre mucillaginose di psillio e glucomannano, ad esclusiva azione “meccanica” intestinale [1, 2], l’azione farmacologica di un composto è direttamente proporzionale alla quota percentuale capace di raggiungere la circolazione plasmatica. Dobbiamo quindi interrogarci su quanto sia consistente la biodisponibilità orale dei nutraceutici e in particolar modo dei composti di derivazione erbale. La risposta è estremamente deludente. Basti pensare a sostanze assolutamente “celebri” (tanto commercialmente quanto scientificamente) e facilmente reperibili anche nelle piante alimentari come la curcumina [3], gli antociani [4] o il resveratrolo [5], o a sostanze reperibili più esclusivamente in piante medicinali come la berberina [6], assorbite, tutte, per valori spesso inferiori anche all’1% della dose somministrata. La ragione di un dato cinetico così deludente ha molte spiegazioni, tra le quali la possibile instabilità chimica in succo gastrico e/o enterico, il metabolismo degradativo a cui le sostanze fitoterapiche vengono sottoposte per azione del microbiota intestinale, la maggior o minor solidità delle giunzioni serrate enterocitarie, etc. In questa sede non sarà possibile affrontare nel dettaglio tutti gli aspetti possibili. Sicuramente però, una spiegazione certamente “evolutiva” di cui solitamente non si tiene conto, ma di enorme impatto sugli aspetti cinetici dei fitoterapici, è il ruolo svolto dai citocromi e dai sistemi proteici ABC.
Nutraceutici fitoterapici ed enzimi metabolizzanti
Senza voler entrare nei complessi dettagli biochimici che li descrivono, gli enzimi metabolizzanti corrispondono a due categorie di enzimi (detti di Fase I e di Fase II). Gli enzimi di Fase I sono ossidasi la cui finalità è “demolire” quei composti che hanno raggiunto, ad esempio, il fegato tramite circuito portale direttamente dall’intestino, inattivandoli. La demolizione ossidativa produce però metaboliti probabilmente più lipofili di quanto non lo fossero prima e quindi potenzialmente riassorbibili dall’emuntorio renale (quindi a rischio di mancata eliminazione). Entrano allora in gioco gli enzimi di Fase II che coniugando il metabolita, frutto dell’azione dell’ossidasi di Fase I, con un composto altamente idrofilo, ad esempio l’acido glucuronico, ne facilitano l’eliminazione urinaria [7]. I citocromi non esistono da sempre. Hanno fatto la loro comparsa nel corso dell’evoluzione ed oggi l’uomo ne possiede svariate decine di famiglie [8]. La guida di tale evoluzione è stata probabilmente l’interazione pianta-animale, dove la prima produceva sempre nuovi metaboliti secondari e il secondo si proteggeva attraverso mutazioni dei geni che codificano per gli enzimi detossificanti [9]. Con “metaboliti secondari” intendiamo identificare i principi attivi della fitoterapia e cioè antrachinoni, polifenoli, tannini, terpeni, alcaloidi, etc. Il motivo della loro sintesi da parte della cellula vegetale è principalmente la difesa. La pianta deriva i metaboliti secondari per difendersi, per allontanare gli attacchi degli animali. La difesa non è però l’unico motivo che induce la pianta a sintetizzare metaboliti secondari. Basti pensare ai colori dei fiori. Questo è molto spesso determinato dalla presenza di metaboliti secondari con funzioni attrattive, la cui finalità è quindi quella di “richiamo” per animali, soprattutto insetti, in qualche modo “fecondatori”. Quello che noi quindi chiamiamo principio attivo vegetale, per la pianta è invece o un metabolita secondario di tipo “tossico” che usa per difendersi, o un metabolita secondario con caratteristiche cromofore che usa come richiamo. Deve esserci però una ragione evolutiva capace di spiegare l’esistenza degli enzimi metabolizzanti. Una delle spiegazioni maggiormente accreditate è che tale sistema si sia evoluto come meccanismo per rimuovere dal cibo proprio questi costituenti naturali, i metaboliti secondari del vegetale, totalmente privi di significato alimentare, come i polifenoli, i terpeni, le saponine, gli alcaloidi [10]. Tali sostanze non hanno infatti alcun significato alimentare. Da un punto di vista strutturale e calorico i polifenoli non sono sostanze utili. Se però in un sistema in vitro, che quindi esula totalmente dalle problematiche di assorbimento e metabolismo, dovessimo verificare l’azione dei polifenoli, troveremmo che questi dimostrano una certa attività farmacologica. Soprattutto un evidente potere antiossidante, ad esempio. Ci troviamo quindi di fronte ad un gruppo di sostanze, in questo caso i polifenoli, che non dimostra valore nutrizionale alcuno ma che è dotato di potere farmacologico, in questo caso antiossidante. Ecco che, per difesa, i tessuti evolvono un sistema capace di eliminare questi composti che vengono considerati tanto inutili quanto pericolosi. Quanto fin qui descritto per i polifenoli vale allo stesso modo per terpeni, saponine, alcaloidi e per ogni altro principio attivo di origine erbale. Questo spiega sicuramente la particolare inefficienza farmacologica di gran parte degli integratori fitoterapici. Vengono infatti concentrati e somministrati ad individui che, sulla base dello stampo molecolare costituito da queste stesse sostanze naturali presenti da sempre negli alimenti, hanno costruito enzimi disattivanti (ossidasi) o coniuganti e, quindi, favorenti l’eliminazione (glucuronidasi). Un esempio chiaro ed illuminante risulta essere il caso della curcumina. Questa, scarsamente assorbita a livello intestinale, solo in piccola parte raggiunge il fegato dove però trova ad attenderla gli enzimi di Fase II che la coniugano con acido glucuronico contribuendo a determinarne un rilievo plasmatico in forma libera quasi nullo. Se si opera però un antagonismo diretto alla glucuronazione epatica alla quale la curcumina è sottoposta, ad esempio ricorrendo all’uso di un alcaloide noto come piperina (estratta da Piper nigrum o Piper longum), la glucuronazione a carico della curcumina viene ridotta e il rilievo plasmatico nell’uomo, a parità di dose somministrata, sale di circa venti volte [11].
Nutraceutici fitoterapici e proteine ABC
Il processo evolutivo che ha portato l’uomo ad una sorta di detossificazione molecolare, e che oggi contribuisce a spiegare parte dell’inefficienza e della scarsa biodisponibilità orale dai fitoterapici, non si risolve esclusivamente nei soli aspetti di protezione epatica. E questo non soltanto perché gli enzimi metabolizzanti sono ben presenti anche nell’intestino, ma perché l’intestino stesso costituisce un’altra vera ed efficiente barriera. Nell’intestino sono infatti presenti altri sistemi di detossificazione che contribuiscono a ridurre enormemente la biodisponibilità orale dei fitoterapici. Tali sistemi sono rappresentati dal gruppo delle ATP-Binding Cassette (dette anche proteine ABC), un sistema di proteine ATP-consumanti la cui azione è estrudere composti, permeati all’interno dell’enterocita, nel lume intestinale per limitarne la possibilità di raggiungere il circuito portale e, attraverso questo, l’organo epatico. La pompa estrudente più studiata risulta essere la glicoproteina-P (gp-P) [12]. La gp-P interagisce con diverse sostanze di origine fitoterapica limitandone, o alterandone comunque, l’assorbimento intestinale. Si prenda ad esempio il caso della berberina [13]. Fino al 90% della quota somministrata per bocca viene ri-estrusa, e quindi non più assorbita nel lume intestinale per opera della gp-P [14]. Una prova diretta di quanto sostenuto la si ottiene verificando l’efficienza clinica di una preparazione contenente solo berberina o berberina e silimarina insieme. Entrambe le sostanze interagiscono con la gp-P e le prestazioni della berberina sono negativamente influenzate dall’estrusione intestinale mediata da questa. Antagonisti della gp-P [15] sia di sintesi che naturali, come la silimarina appunto, migliorano la biodisponibilità e l’efficienza clinica della berberina [16].
Nutraceutici fitoterapici ed herbal bioenhancers
Quanto descritto in merito al ruolo giocato dalla piperina e dalla silimarina nel migliorare l’assorbimento di curcumina e berberina focalizza il concetto di herbal bioenhancers, cioè quello di incrementatori erbali di biodisponiblità orale. Sostanze cioè di derivazione botanica capaci di incrementare la biodisponibilità di altre sostanze fitoterapiche caratterizzate, al contrario, da uno scarso profilo di assorbimento orale. Il ruolo di herbal bioenhancersi gioca, almeno in maniera preferenziale, soprattutto a livello di ATP-binding cassette, in particolare attraverso un antagonismo diretto sulla gp-P, e a livello di enzimi metabolizzanti, principalmente attraverso un’interazione con gli enzimi di Fase II e, meno, con gli enzimi di Fase I. Almeno da un punto di vista teorico, l’herbal bioenhancer dovrebbe essere una sostanza inerte. Non sempre però le sostanze investigate fino ad oggi per questa funzione sono realmente inerti. Possiamo però per loro dichiarare una certa inerzia farmacologica, almeno per ciò che concerne il target farmacologico cercato. La lista dei possibili herbal bioenhancers a disposizione dei formulatori è realmente lunga. Oltre ai già citati piperina e silimarina, anche lo zenzero, la stessa curcumina, la niaziridina, la tetrandrina, l’allicina, il lisergolo, la sinomenina e la naringenina presentano un netto profilo di “incrementatore farmacocinetico” di fitoterapici. Si rimanda quindi il lettore alle ampie review dedicate all’argomento [17].
Nutraceutici fitoterapici e forme fitosomiali
La maggior parte dei fitoterapici nutraceutici corrisponde ad estratti piuttosto ben purificati. In molti casi però la purificazione ha migliorato la gestibilità e la conoscenza chimica del preparato, come effettivamente cercato, ma ha parimenti condotto ad una ulteriore sostanziale perdita di biodisponibilità orale della frazione stessa. Ha determinato infatti la perdita di quelle naturali veicolazioni presenti all’interno della droga di partenza che consentivano all’ingrediente di muoversi liberamente nel vegetale prima dell’estrazione. In risposta a tali perdite la ricerca si è concentrata sul recupero delle veicolazioni perse nel processo estrattivo sviluppando le cosiddette forme fitosomiali. I fitosomi risultano essere complessi molecolari caratterizzati dalla vettorizzazione di sostanze, quali polifenoli, terpeni o saponine, con fosfolipidi puri spesso ottenuti dalla soia. La somministrazione delle forme Fitosoma è in grado di riprodurre, almeno in parte, gli aspetti cinetici persi dal fitoterapico in seguito al processo di purificazione, determinando importanti incrementi rispetto a quanto ottenuto sommistrando le medesime frazioni in forma non complessata. I miglioramenti cinetici riportati in letteratura per la forma Fitosoma descrivono aumenti mai inferiori alle tre volte. I fitosomi nascono nel 1989 grazie ad una tecnologia messa a punto da un gruppo di ricercatori italiani. In termini chimici il Fitosoma è una struttura determinata dall’interazione stechiometrica, in solvente aprotico, di una frazione molecolare estratta, ad esempio polifenoli, terpeni o saponine, con un vettore lipidico, più tipicamente una distearoilfosfatidilcolina. Nell’idro-dispersione, posto cioè in acqua, il Fitosoma assume una particolare forma micellare che ricorda quella del liposoma, ma con questo esibisce concettualmente, e praticamente, alcune differenze fondamentali: nel liposoma il principio attivo è dissolto nella cavità della micella o negli strati della membrana della micella stessa e il rapporto tra carrier fosfolipidico e principio attivo è circa 100-1000:1; nel Fitosoma, al contrario, il principio attivo è parte integrante della membrana essendo ancorato attraverso legami chimici deboli, riconducibili forse alle cosiddette forze di Wander Walls, alla testa polare dei fosfolipidi con i quali è in rapporto molare 1:1. Il rapporto in peso, all’interno del Fitosoma, dei suoi due componenti è invece tipicamente 1:2 (1 parte di attivo, 2 parti di fosfolipide). Numerose sono state le forme fitosomiali sviluppate proprio nell’intento di ridurre lo scarso profilo cinetico dei fitoterapici. Tra questi quelli caratterizzati da un più elevato profilo di documentazione sono le forme fitosomiali di silimarina (Silybum marianum), curcuma (Curcuma longa), tè (Camellia sinensis), ginkgo (Ginkgo biloba), vite (Vitis vinifera) e boswellia (Boswellia serrata) [18-34].
Nutraceutici e tecniche galeniche
Una delle cose che subito colpisce un galenista-formulatore “classico” che per la prima volta approccia il mondo dei fitoterapici e/o dei nutraceutici è la quasi totale assenza di “manipolazioni” sul prodotto finito. Come è ben noto, al contrario, gli sviluppi di un farmaco molto spesso si avvalgono di queste manipolazioni, di tecniche cioè che permettono un rilascio controllato del principio attivo. Il significato di un rilascio controllato è ovviamente l’ottimizzazione della resa farmacocinetica e clinica del prodotto. Tra le varie forme di rilascio controllato senza dubbio grande significato hanno la cessione immediata, la cessione rapida, la cessione prolungata, la gastro-protezione e la colon-specificità. Il razionale di una cessione rapida, o fast-release, è l’ottenimento di un prodotto che subito disaggreghi in modo da essere immediatamente disponibile per l’assorbimento. Un prodotto finalizzato per esempio a migliorare la qualità del sonno (Valeriana officinalis) ha significato se formulato per rilasciare nel più breve tempo possibile i suoi principi attivi [35]. Pur essendo sempre considerabile come fast-release, un ingrediente che venga invece rilasciato entro pochi secondi, quando la forma farmaceutica (ad esempio una compressa) non è stata ancora deglutita, deve essere considerato all’interno della sfera degli immediate release [36]. I rilasci immediati hanno significato biologico ad esempio nell’ottica di una forma solida orale che rilasci un ingrediente potenzialmente assorbibile già attraverso le mucose del cavo orale, come l’estratto di Piper methysticum, o kava-kava [37], nella costruzione ad esempio di un prodotto finalizzato al trattamento degli attacchi di panico. Al contrario un prodotto finalizzato al trattamento dei sintomi della menopausa (Glycinemax) trova senza dubbio logico uno sviluppo che ne consenta un rilascio protratto (slow release) nell’arco della giornata in considerazione sia di un assorbimento legato all’azione intestinale delle â-glicosidasi batteriche capaci di liberare l’aglicone (molecola realmente assorbita), che di una sintomatologia onnipresente nell’arco delle 24 ore [38]. Vi sono casi, il cui perché è ancora in parte da chiarire, in cui il rilascio prolungato, o slowrelease, consente anche di migliorare un valore di biodisponibilità orale decisamente basso: la cumarina del Melilotus officinalis è presente nel circolo ematico come tale per l’1% del dosaggio somministrato. Tale valore sale però al 35% nel caso di un rilascio prolungato [39]. La somministrazione invece di un prodotto a scarsa stabilità per valori di pH molto bassi o il cui principio attivo possa essere una proteina hanno significato se formulati in maniera da essere protetti dall’azione del pH fortemente acido tipico dei succhi gastrici [40]. Infine la colon-specificità. Ha ragione d’essere quando il preparato deve in qualche modo concentrarsi in sede colonica e non necessita di assorbimento. L’acido butirrico ne è un esempio: acido grasso a corta catena con ruolo protettivo sulla mucosa colonica, mostra capacità che in qualche modo ricordano quelle giocate sulla mucosa gastrica dalle prostaglandine [41]. Da un punto di vista galenico i rilasci rapidi si ottengono con eccipienti scelti opportunamente come ad esempio l’explocel, capace di rilasciare la frazione attiva entro 5-10 minuti dalla deglutizione. Quando invece il successo terapeutico di una preparazione è legato all’immediatezza del rilascio, la forma farmaceutica dovrà essere formulata ricorrendo ad un vero e proprio esplodente, o super-disgregante, come il polivinilpolipirrolidone (PVPP) XL. Un rilascio programmato tempo-dipendente con cessione ritardata entro le 4, le 8 o le 12 ore (o per valori orari intermedi e per loro frazioni) si definisce slow-release. La cessione programmata si ottiene ricorrendo e applicando i cosiddetti rilasci “a matrice”. Per funzionare in questo modo gli strati della compressa (le matrici) devono contenere come ingrediente principale il cosiddetto methocel o il metholose. Il grado di polimerizzazione di tale ingrediente determinerà la velocità, o la lentezza, di disgregazione degli strati. La gastro-protezione è una forma di manipolazione del prodotto finito di tipo pH-dipendente. Se il principio attivo verrà rilasciato o meno, sarà il pH dell’ambiente in cui si trova l’ingrediente in quel momento a deciderlo. Si gastro-protegge, si impedisce cioè la dissoluzione dell’ingrediente in ambiente gastrico, quando si teme che il succo gastrico possa ledere l’ingrediente attivo, anche solo in parte, diminuendone l’efficacia, oppure quando si vuole proteggere la mucosa gastrica del paziente dall’azione irritante del principio attivo. La sostanza capace di determinare gastro-protezione prende il nome di shellac. Questo è un ingrediente di origine alimentare ottenuto per estrazione dalla cuticola esterna dei gamberetti. Infine la cosiddetta colon-specificità dei preparati, la cui dissoluzione, pH-dipendente come la gastro-protezione, avviene solo nell’intestino crasso. Ricorrendo a metodiche di filmatura (della compressa come della capsula) con miscele opportunamente studiate di ammonio carbonato, trietilcitrato e gomma lacca, il principio attivo che si intende essere colon-specifico si libera entrando in contatto con la mucosa intestinale solo a livello del colon, in presenza quindi di un viraggio di pH tra 6,8 e 7,2 tipico della transizione tenue-crasso. Per quanto concerne infine le scelte formulative relative a sali minerali, vitamine e aminoacidi, anch’essi nutraceutici, due aspetti principali devono essere sottolineati. Nella formulazione di un nutraceutico salino andrebbero sempre preferite le forme organiche, sicuramente più biodisponibili, come le forme citrato, gluconato e pidolato [42]. Per gli aminoacidi, come anche per alcune vitamine, bisognerebbe ricordare che molto spesso questi composti utilizzano trasportatori intestinali dedicati perciò dosaggi molto elevati, se non formulati secondo la logica dei rilasci programmati prima descritti, tendono a restare non assorbiti e persi [43]
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